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Nablus, la paura e il raccolto delle olive

Palestina Nel villaggio di Burin alcuni gruppi di europei, tra cui Slow Food, aiutano i contadini nella raccolta delle olive. Un rito che si trasforma in tiro al bersaglio

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 31 ottobre 2019

«L’idea era mettere via qualche soldo poter fare un viaggio in Europa. Ho trovato un lavoro in un negozio di fiori, a Nablus. Era perfetto per me e anche per i miei genitori. La sera finivo alle cinque, ma d’inverno fa già buio e la strada diventa pericolosa: spesso i coloni scendono dalle colline e attaccano le nostre auto, quella di mio zio è stata raggiunta dalle sassate due volte. Perciò mio padre veniva a prendermi a fine lavoro. Una sera, mentre tornavamo a casa, come spesso capita, in pochi minuti i militari hanno chiuso il check point. Siamo stati ore ad aspettare che lo riaprissero. Non è successo e siamo passati senza fermarci, rischiando. Ho dovuto abbandonare il lavoro e anche il desiderio del viaggio. Vorrei poter conoscere la sensazione di che cosa si prova a vivere liberi».

MUNA ASOUS STUDIA LINGUE alla An-Najah National University – inglese ed ebraico «perché voglio poterli affrontare» – ha 19 anni e vive a Burin, villaggio rurale a pochi chilometri da Nabuls, nel nord della Cisgiordania, territorio sotto stretto controllo e occupazione delle milizie israeliane. Muna è figlia di un professore di arabo delle scuole medie, Sameer, e una contadina, Doha, che ben sanno che cosa significhi resistenza, in ogni gesto, anche il più semplice della vita quotidiana. La famiglia Asous è un nodo importante della rete di Terra Madre, partecipano al meeting torinese da due edizioni e sperano di tornarci nel 2020: «Portare i nostri prodotti a Torino per noi significa rivendicare la nostra stessa esistenza» confessa Doha che nomina Slow Food con orgoglio e contendendo a stento il sorriso.

BURIN E’ CIRCONDATO DA ULIVI E PURTROPPO anche da insediamenti illegali che qui si espandono insieme all’indifferenza complice della comunità internazionale. Tanto che, per «ragioni di sicurezza», cresce anche la presenza militare e i conseguenti controlli che rendono di fatto impossibile la vita ai contadini palestinesi, sottoposti, oltretutto, a costose e labirintiche pratiche burocratiche per ottenere i permessi obbligatori per lavorare nei campi. Tra l’altro i permessi non sempre arrivano e, in ogni caso, ai contadini non è concesso accedere alla terra che coltivano da generazioni se non due volte l’anno, qualche giorno in primavera, per una rapida potatura, e quando finalmente arriva il tempo della raccolta. A raccogliere si comincia i primi giorni di ottobre: all’arrivo in paese si vedono le reti sotto gli alberi e braccia tese verso i rami più alti. Anche quest’anno, per tutelare e aiutare i contadini nel momento più delicato della stagione, un gruppo di volontari britannici ha preso casa a Burin. Sono per lo più signore, medici, insegnanti di danza, pittrici, docenti universitarie che da oltre dieci anni si impegnano a garantire una presenza internazionale per contenere gli attacchi dei coloni.

QUEST’ANNO IL GRUPPO SI E’ ALLARGATO, c’è qualche giovane in più e un gruppetto indipendente di ragazze spagnole che in poco tempo si sono conquistate la nomea di grandi lavoratrici, nonché la stima dei contadini della zona che se le contendono senza remore. I primi giorni di raccolta sono una festa, le olive sono belle, i rami carichi. È una gioia vedere i sorrisi dei contadini che portano i frutti alla pressa. Le giornate sono luminose, fatte di caffè al cardamomo e tè alla salvia, za’atar e olio verde appena spremuto, chiacchiere e sorrisi, in un misto di lingue che abbatte ogni barriera. Ai racconti degli attacchi dei coloni non è facile credere, travalicano ogni logica. Finché non lo vedi.

SCENDONO DALLE COLLINE VESTITI di bianco, armati, fanno paura. Questa volta indossano magliette e maschere nere, sono giovani, sulla ventina, portano mazze da baseball e spranghe di ferro. I campi più vicini agli insediamenti sono i più pericolosi, bisogna fare attenzione, tenersi lontani dai punti esposti, quelli visibili dagli insediamenti.

A META’ MATTINA DEL 16 OTTOBRE il gruppo di spagnole raccoglie insieme a Doha in un campo vicino a Yitzhar, insediamento illegale che sovrasta Burin. Il lavoro viene interrotto da un vociare insolito, sono grida di allarme e paura. Il telefono di Doha squilla: i coloni hanno attaccato. Bisognerebbe allontanarsi, il rischio è una pioggia di sassi. Ed ecco che si alza il fumo, se ne sente l’odore insieme al crepitio delle fiamme. È il quarto incendio in meno di un mese: i coloni bruciano gli ulivi proprio quando i frutti sono maturi. Il fuoco costringe il gruppo alla ritirata, mentre un mezzo antincendio palestinese lavora come può dall’alto della collina: il terreno scosceso non gli permette di dirigersi sotto le fiamme. Con poca convinzione delle spagnole, i sacchi carichi sono abbandonati sul ciglio della strada, nascosti alla belle meglio sotto i rami d’ulivo. Di lì a poco, Sameer, che ha dovuto interrompere la sua lezione, passerà a ritirarli. Sulla strada ad alta percorrenza che separa il villaggio dal campo minacciato dall’incendio, passa un’auto della polizia e costringe Doha a fermarsi. Le chiedono se vada tutto bene. «No – risponde la contadina – certo che no». Le chiedono chi abbia appiccato l’incendio. «I coloni», risponde, ma del resto lo sanno anche loro. Le chiedono perché stia raccogliendo le olive senza permesso, avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione alle autorità israeliane. «È la mia terra, sono le mie olive, che permesso mi serve?» risponde.

IL GRUPPO DI RACCOGLITRICI SI DIRIGE in un campo più vicino al villaggio e quindi meno pericoloso. È ormai ora di pranzo. Humus, baba ganoush, fave in padella, uova bollite, olio appena spremuto, arance e melograno. Un rito quotidiano reso irreale dall’incendio che avanza sulle colline. Arrivano i familiari di Doha, preoccupati dalle fiamme vicine e dalla violenza dei coloni. Non portano buone notizie: un volontario inglese è stato ferito alla mano, un rabbino dei Rabbis for human Rights, che quella mattina si era unito al gruppo dei britannici, è stato colpito alla testa, un signore di ottant’anni. Entrambi sono finiti in ospedale. Erano una decina, hanno attaccato dall’alto, i raccoglitori non hanno fatto in tempo a scappare.

INTANTO IL VENTO PORTA IL FUOCO vicino all’insediamento: invece che gli ulivi brucia la discarica che i coloni hanno accumulato nella terra dei contadini. E infatti ora arrivano gli aerei antincendio, sedano il fuoco, troppo vicino all’insediamento. «Quando erano gli ulivi a bruciare non è arrivato nessun aereo», osserva con amarezza Doha mentre serve ancora un po’ di te prima di riprendere a lavorare.
A sera le notizie sono confermate: Jim, il volontario inglese colpito (anche lui porta con forza i sui anta abbondanti), zoppica, ha un dito fasciato, la mano livida e gonfia: «Ho avuto paura di essere ucciso, erano giovani, mascherati, mi hanno colpito con una spranga di ferro. Il dizionario arabo/inglese che Caroline trasportava nello zaino l’ha protetta. Catherine invece l’hanno colpita alla schiena, niente di grave ma ne porta i segni. Con noi c’era un gruppo dei Rabbis for human Rights, un volontario è in ospedale, ferito alla testa». Fatto questo ripreso anche da Breaking the silence (gruppo di ex militari impegnati nel racconto delle angherie inflitte ai palestinesi – www.breakingthesilence.org), e da Haaretz che nei giorni seguenti riporta la notizia di una trentina di giovani allontanati da Yitzhar. Giovani coetanei di Muna.

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