In età di sovranismo e populismo diffusi, le due variabili che sembrano meglio caratterizzare il potere politico dal punto di vista della propria legittimazione sono il suo rapporto con lo spazio geografico (la sovranità materiale) e i suoi legami con la collettività (il fondamento «popolare»). Si tratta, al medesimo modo, di due concezioni tanto imprescindibili quanto intrinsecamente insufficienti o comunque insoddisfacenti. Tali poiché da sé non in grado di rendere appieno il senso della complessità di quel viluppo di relazioni che, per l’appunto, vanno sotto la condizione dell’esercizio del potere come sintesi tra conflitti e asimmetrie di ruoli. Le condizioni di imprescindibilità e insufficienza, peraltro, possono benissimo coesistere, non contraddicendosi vicendevolmente. L’imprescindibilità deriva dal fatto che la nozione stessa di potere, su un piano fattuale, si intreccia alla dimensione geografica, ovvero alla sua estensione territoriale, al pari del tema irrisolto della costruzione e rigenerazione dei meccanismi della sua legittimazione collettiva. Diretti o indiretti, partecipati o passivi che questi ultimi siano.

GLI ELEMENTI DELLO SPAZIO e delle masse fisiche in quanto dimensioni materiali, quindi, si intrecciano indissolubilmente, tanto più in società collettive, tendenzialmente stanziali, con una forte densità di urbanizzazione e una propensione alla produzione seriale e standardizzata. Territorialità e consensualità, per più aspetti, reggono quindi elementi fondamentali delle sorti delle classi dirigenti. L’insufficienza, tuttavia, sopravanza dal momento in cui la storicità dei legami sia con la terra (la «nazione» come oggetto proiettato e disegnato verso una dimensione fisica, corrispondente ad uno spazio in qualche modo delimitabile) che con la collettività (il «popolo» come soggetto metafisico, istanza al medesimo tempo etno-politica e materia morale, dimensione etica di una comunità nazionale) non venga pienamente evidenziata.

La tentazione di assolutizzare il tempo, ossia di sottrarlo letteralmente al suo trascorrere, trasformando il discorso storico in un’eterna ripetizione di alcuni paradigmi ideologici, quindi in una specie di presente permanente, è infatti insita in qualsiasi meccanismo di auto-sostegno dei sistemi di potere. Storicità implica due aspetti, tra loro correlati: come si sviluppa e viene condiviso il trascorrere del tempo, e quindi delle stesse forme materiali del potere correlatevi, poiché da esso influenzate, così come il controllo che quest’ultimo cerca di esercitare sulla nozione e sulla percezione stessa del tempo, quando tali elementi diventano strumenti di coesione e integrazione sociale e politica (gli ordini temporali, ovvero la comune percezione del senso dello scorrere delle epoche, quindi del mutamento così come delle continuità, e i circuiti di legittimazione delle gerarchie sociali che da ciò derivano).

NEL QUAL CASO, la concezione della storia, di per sé mutevole come i suoi stessi protagonisti, è infatti non il criterio con il quale si ricostruisce il passato in quanto concatenazione di eventi ma l’uso che di questo si fa nell’azione di consolidamento del potere costituito, puntellandone le fondamenta attraverso il controllo di «specifiche interpretazioni di ciò che è temporalmente rilevante». Si parla al riguardo anche di crono-politica, intesa come l’analisi delle modalità con cui certe concezioni del tempo e della natura del cambiamento sono chiamate in causa nei processi decisionali.

Si pensi al riguardo, per fare anche solo una veloce puntata nel nostro presente, quanto le dinamiche evolutive del cambiamento climatico stiano incidendo, anche in forme retroattive, sulla concezione di tutto ciò che si lega alla direzione dei processi storici e, in immediata concatenazione, ai circuiti di legittimazione dei decisori e dell’impatto delle loro scelte. Insieme alla definizione dell’agenda delle priorità comuni. A tale riguardo, Christopher Clark, Regius Professor di storia all’Università di Cambridge, di cui in Italia è già stato tradotto il volume I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra (Laterza, 2015), con la sua nuova opera su I tempi del potere. Concezioni della storia dalla Guerra dei Trent’anni al Terzo Reich (Laterza, pp. 304, euro 28) svolge una riflessione di merito sulla rappresentazione (e gli usi) del tempo da parte dei gruppi dirigenti politici. Il suo approccio è longitudinale, considerando quattro epoche distinte per altrettanti regimi politici, articolatisi tuttavia nello stesso spazio geografico, dal Seicento al Novecento.

L’OPERA È QUINDI SUDDIVISA in quattro macro-capitoli. Nel primo di essi si affronta il conflitto tra Federico Guglielmo di Brandeburgo-Prussia, il Grande Elettore, e gli Stati provinciali tedeschi dopo la fine della Guerra dei Trent’anni (1648). Ciò che ne segue è infatti caratterizzato dalle tensioni politiche che si proiettano sul modo in cui il sovrano cerca di dare un ordine di senso alle raffigurazioni dello scorrere del tempo, impegnato com’è nell’obiettivo di delimitare i vincoli delle tradizioni politiche e culturali preesistenti per rafforzare la propria legittimazione. In questo caso, la proiezione verso il futuro, con l’omogeneizzazione politica da costruire e radicare, informa di sé il discorso storico dell’epoca, sospeso com’era tra la visione di un passato problematico, fatto di lotte e divisioni, e un futuro che avrebbe invece dovuto dischiudere le opportunità derivanti da una sovranità unificata.

NEL SECONDO CAPITOLO l’attenzione è concentrata sul lavoro intellettuale di Federico II di Prussia, monarca tra i pochi che si siano adoperati per redigere una storia dei propri territori durante il ’700. La prospettiva, in questo caso, è capovolta rispetto al predecessore, suo bisnonno: «al posto della storicità rivolta al futuro del Grande Elettore una forma di temporalità neoclassica, stazionaria, nella quale predominava un’idea di permanenza immutabile nel tempo e di ripetizione ciclica». Si tratta, lo si sarà inteso, non tanto del prodotto di un’elaborazione intellettuale a sé stante ma del modo in cui, nell’uno come nell’altro caso, i sovrani procedono a delimitare e puntellare il fondamento logico del loro potere ricorrendo ad immagini e paradigmi simbolici con i quali interpretare l’epoca in cui stanno vivendo.

Il terzo capitolo è dedicato a Bismarck, laddove il senso della storicità «era lacerato da una tensione fra la sua dedizione all’immutabile permanenza dello Stato, da una parte, e l’agitazione e il cambiamento della politica e della vita pubblica». Il problema del rapporto con le classi subalterne, così come la differenziazione sociale in atto in Germania, si rifletteva nelle modalità di intendere l’ambivalenza tra una pubblica amministrazione senza tempo, depositaria della più alta legittimazione civile, ed una società sempre più in tumulto, rivolta a costruirsi autonomamente ordini di significato storico. Ad avvantaggiarsi del crollo del sistema istituzionale che lo stesso «Cancelliere di ferro» aveva concorso ad edificare furono – non a caso – i nazisti. Ovvero, costituirono gli «eredi» e i profittatori dello smottamento civile, politico, amministrativo del sistema guglielmino. Se ne parla con una grande varietà e vivacità di fonti nel quarto capitolo. «Mentre l’idea di storicità bismarckiana si era fondata sul presupposto che la storia fosse una sequenza dalla struttura complessa e proiettata in avanti, composta da situazioni sempre nuove e non preordinate, i nazisti fondarono le più radicali aspirazioni del loro regime in una profonda identità fra il presente, un remoto passato e un lontano futuro».

IL FONDAMENTO RAZZISTA del Terzo Reich di fatto coniuga l’idea di «movimento sociale» (la permanente riorganizzazione della società tedesca come fondamento della sua stessa ragione di esistere) ad un’«immobilità nell’immaginario visivo nazista, collegandolo alla logica dell’escatologia cristiana, in cui il soggetto risulta sospeso fra la memoria di una redenzione passata (nella forma dell’incarnazione di Cristo) e l’anticipazione di una futura salvezza collettiva». Per il nazionalsocialismo non esiste evoluzione bensì involuzione, alla quale si deve ovviare con una visione politica millenaristica, «nella quale il remoto futuro non era altro che la promessa avveratasi del passato». Un tempo senza storia, quello della razza, che non è andato per nulla esaurendosi con la fine del regime che più e peggio lo ha eretto a sistema di dominio.