Si entra in sala tutti insieme, la scena è aperta e già si intravedono nel buio quelli che saranno i tre protagonisti della nuova versione dell’Hyperion di Bruno Maderna. Attraverso i corpi di una flautista, un danzatore e una soprano, risuonano (al Teatro Vascello per Romaeuropa festival) le note del compositore veneziano ad opera di Muta Imago, compagnia romana tra le migliori dell’ultimo decennio sulla scena italiana, vocata a una rigorosa ricerca di senso nella creazione di immagini sorprendenti, mai schiave di estetismi modaioli nella loro capacità di spingersi e lambire l’assoluto.

Avvicinatisi negli ultimi anni sempre più all’interno di una dimensione musicale, Claudia Sorace e Riccardo Fazi – le due guide di Muta Imago, lei regista e lui drammaturgo – sono ora approdati alla complessa partitura di Maderna sulle parole di Hölderlin, andando a recuperare frammenti delle rare esecuzioni orchestrali, dirette dallo stesso compositore, compresa quella del debutto alla Biennale di Venezia nel 1964. E lasciando però in scena solo il flauto (Karin de Fleyt) e la voce (Valérie Vervoort) entrambe della fiamminga Hermes Ensemble, come il danzatore.

Ne esce una nuova sequenza, coadiuvata dagli arrangiamenti di Juan Parra Cancino, che dialoga con le tensioni coreografiche di Jonathan Schatz, chiuso nel suo cerchio, al centro della scena, e intento a calcolare misure e pesi del suo essere corpo e mente su questa terra. Si allunga, si rotola e contorce, salta e aumenta la spinta sempre più in alto, ma poi ricade pesante e ricomincia daccapo, in una lotta senza fine in cerca di se stesso nel perenne interrogarsi su quale sia il suo posto nel mondo.

Egli incarna il peregrinare del greco Iperione del romanzo epistolare di Hölderlin che, due secoli dopo, nelle sperimentazioni compositive maderniane, si trasformano in flauto e soprano e aprono una contrappuntistica sfida con l’orchestra, il confronto tra la solitudine del poeta e la realtà. Per Muta Imago il materiale poetico e musicale diventa occasione per tornare a indagare i conflitti interiori – si pensi a uno dei suoi primi spettacoli, Lev – con la consueta artigianalità tecnologica, che qui si avvale di Daniel Blanga Gubbay (fondatore della ora sciolta Pathosformel, altra compagnia di punta della ricerca italiana).

In un evocativo bianco e nero la scenografia appare in divenire, sale, scende, viene operata dal performer, mentre nel finale il canto del destino di Hölderlin ricorda a ognuno la propria lotta quotidiana.