La notizia è di metà gennaio. Un compositore italiano abbastanza giovane ma non così tanto (33 anni), Enrico Scoccaglia, ha vinto il Premio Berio, un concorso internazionale alla sua seconda edizione indetto dall’Accademia di Santa Cecilia in collaborazione con il Centro Studi Luciano Berio, l’Orchestra Filarmonica della Scala, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, il Teatro Carlo Felice, la Universal Edition e con il supporto della Siae e della Fondazione Boris Christoff. Un concorsone, insomma. La notizia è stata diffusa dall’ufficio stampa di Santa Cecilia corredata da molte foto che ritraggono i membri della giuria (Antonio Pappano, presidente, e i compositori Tania León, Luca Francesconi, Michael Jarrell, Hilda Paredes, nella foto) intenti a esaminare le 25 partiture ammesse alla fase finale. Si consultano tra loro, discutono, riflettono, leggono. Soprattutto leggono. Fogli e fogli di note scritte. Niente di nuovo, così si fa in tutti i concorsi di questo tipo. Per giudicare l’interesse più o meno alto delle opere le si leggono su carta (adesso anche su computer). Mica si ascoltano. Non sarebbe possibile perché le opere in concorso devono essere inedite e mai eseguite. Tutto logico e normale. Però una curiosa riflessione fa capolino, s’insinua fastidiosa. Il mondo della musica sciaguratamente definita «colta» è l’universo non dei suoni ma della carta. Fogli di carta con sopra segni quasi sempre collocati tra linee orizzontali che sarebbero poi il pentagramma. In questo universo non conta l’ascolto, non il suono, la successione di suoni, l’atto sensoriale, corporeo, mentale (vitale?) di ascoltare una musica ma la raffigurazione di quella musica in un fascicolo. Basta e avanza per gli esperti valutatori: loro «sentono» il farsi suono e insieme di suoni mentre leggono i fogli. Si sa, questa è la prerogativa degli esperti di musica soprattutto «colta». Resta una piccola perplessità, un vagare del pensiero come una zanzara. Viene in mente che questo modo di giudicare – e forse di fruire – la musica da parte degli esperti, cioè il modo che consiste nel leggerla, è il vero modo del rapporto con la musica. L’ascolto? E cosa sarà mai? Una faccenda secondaria, niente di fronte all’analisi attenta, scorrimento lento di segni su linee, che è l’atto supremo. Eppure Frank Zappa diceva: «Scrivo musica per sentirla» e analoghe parole pronunciava John Cage: «Non ho studiato solfeggio… non ho studiato le convenzioni… che permettono di sentire la musica già sulla carta prima che nella realtà». Dilettanti.