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Musica antica di indelebili sfumature di nero

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Manifestolibri Intorno a «Faccette nere» di Felice Liperi, alle origini del razzismo italiano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 febbraio 2023

Il razzismo è un’ideologia, il pregiudizio un luogo comune. Poche cose veicolano e impongono la dittatura di un luogo comune più delle canzoni popolari, che colonizzano la mente in modo più strisciante, subdolo e profondo di quanto non riescano a fare discorsi espliciti e stentorei. Quanto hanno pesato le canzoni, nella loro apparente innocenza, nel costruire una mentalità ricca di pregiudizi con punte di vero razzismo quale quella che emerge spesso nel nostro Paese?

Felice Liperi, critico musicale e studioso della canzone italiana, parte da questa domanda e offre una prima, agile ma densa risposta nel suo Faccette nere. Inni e canzoni all’origine del razzismo italiano (manifestolibri, pp. 134, euro 10.00). Veloce, sintetico, ricchissimo di informazioni che toccano l’intero quadro della canzone italiana, il libro di Liperi si divide in realtà in due fasi storiche distinte. Solo alla prima si attaglia davvero il sottotitolo, col suo riferimento secco al razzismo. Si tratta di un catalogo ragionato di come la musica leggera si fece grancassa e amplificatore di un’ideologia razzista negli anni del regime, e in particolare dopo l’aggressione imperialista nel Corno d’Africa.

Molti autori di canzoni avevano già indossato la camicia nera negli anni Venti e tra loro c’erano personalità del calibro di Pietro Mascagni. Il jazz, «inaudita gragnuola d’inauditi ritmi tetri e selvaggi», era stato preso di mira subito e come si fa a non cogliere una vena ironica sapendo che proprio il figlio del duce, Romano Mussolini, sarebbe diventato uno dei più brillanti jazzisti italiani? Ma è con l’attacco contro l’Etiopia che il florilegio razzista esplode, spunta in una quantità di strofe che dipingono gli africani, i «negri», secondo i più vieti stereotipi sui selvaggi: primitivi, ignorantissimi, sempre ridicoli.

Bell’Abissinia
Eppure proprio la canzone che più di ogni altra segnò quell’epoca, e che giustamente dà il titolo anche a questo libro, non piaceva affatto a Mussolini: cercò addirittura di farla bandire. Faccetta Nera, musica di Mario Ruccione, testo di Giuseppe Micheli, successo enorme, giocava sul registro del razzismo paternalista, presentava l’invasione come una liberazione, non irrideva, gli africani prometteva anzi di fare della «bell’abissina» un’italiana. Non era questa la declinazione del razzismo che aveva in mente il duce, non era a una «razza meticcia» che mirava. L’importanza di quella guerra coloniale non è mai stata riconosciuta in pieno, a livello di massa se non degli studiosi. Fu la prima lacerazione della precarissima stabilità europea. Preparò il terreno per le leggi razziali antisemite del 1938, e in qualche misura le determinò. Incise più a fondo di quanto non sia voluto in seguito riconoscere la mentalità degli italiani.

Ambiguità
Eppure quella canzone popolarissima, destinata a connotare nella memoria un regime che non la amava, rivela anche, nella sua ambiguità, i tratti specifici del razzismo italiano, sempre sul crinale tra pregiudizio e vera ideologia razziale ma pendendo nella maggior parte dei casi sul versante meno consapevole, dunque per alcuni versi più insidioso.
Caduto il regime, finita la guerra, sconfitto il fascismo di canzone compiutamente razzista non si può più parlare. Resta l’eredità di quegli stereotipi però, di quei luoghi comuni che riemergono in canzoni senza alcun dubbio prive di ogni intenzione dolosa e tuttavia, secondo l’autore, non prive di minaccia.

Watussi e stregoni
La famosissima I Watussi, cantata da Edoardo Vianello, su musica sua e testo di Carlo Rossi, era solo una canzone dell’estate volutamente molto leggera. Lo stregone di Fred Buscaglione, cover di Witch Doctor, non si scosta dall’abituale ironia del grande cantante prematuramente scomparso nel 1960. Renato Carosone, quando in Caravan Petrol, salmodiava «Allah, Allah, Allah, ma chi t’ha ffatto fa’» non immaginava certo, né avrebbe potuto farlo, di star mancando di rispetto a una grande religione. Molte di queste involontarie «cadute di stile» sarebbero oggi semplicemente impossibili. Poche canzoni sono oggi più irritanti di quell’Angelo Negro di Fausto Leali che pure, nel 1968, era stata scritta con intenzioni opposte. Ma oggi a nessun nemico della discriminazione verrebbe in mente di cantare «Pur se la Vergine è bianca/fammi un angelo negro/Tutti i bimbi vanno in cielo/anche se sono solo negri».

Il presente
Se la prima e più compiuta parte del libro è indiscutibile, la seconda, che riguarda non solo gli ultimi decenni del secolo scorso ma anche il presente, pone implicitamente un quesito irrisolto: se sia attraverso il divieto e le imposizioni applicate al linguaggio dalla Cancel Culture oppure attraverso una meno coatta ma anche meno superficiale mutazione della mentalità che debba passare la trasformazione antirazzista dei luoghi comuni e l’abbattimento dei pregiudizi.

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