Musei «Top 30», una classifica di mercato
Beni culturali Un'azione propagandistica che elogia la riforma Franceschini, ma in realtà quei dati sull'appeal del nostro patrimonio nascondono molte «imperfezioni» di metodo
Beni culturali Un'azione propagandistica che elogia la riforma Franceschini, ma in realtà quei dati sull'appeal del nostro patrimonio nascondono molte «imperfezioni» di metodo
Accompagnata dai toni trionfalistici del ministro Dario Franceschini, il 25 gennaio è stata pubblicata sul sito web del Mibact la classifica dei trenta musei italiani più visitati nel 2019. Nel leggere il comunicato si ha l’impressione che non si tratti semplicemente della diffusione di dati utili a valutare l’appeal dei musei statali ma di un’azione propagandistica tesa a confermare la «bontà» della riforma Franceschini, solo per breve tempo minacciata dall’altrettanto rovinosa meteora Bonisoli. Al vertice della «Top 30», così come la chiamano i comunicatori «smart» del ministero, c’è il Parco archeologico del Colosseo con 7.554.544 visitatori (95.975 in meno del 2018), che oltre all’Anfiteatro Flavio comprende il Foro Romano, il Palatino, l’Arco di Costantino con la Meta Sudans (unica area del Parco ad ingresso libero) e la Domus Aurea, monumenti ai quali si sommano il Museo Palatino e il Museo del Colosseo.
Un bel pacchetto, la cui fruizione è gestita da Coopculture, società privata che opera nell’ambito dei servizi aggiuntivi ai musei e che beneficia di una congrua parte degli incassi. Se si considera poi la concessione di durata ventennale dei diritti d’uso di immagini (nonché, occasionalmente, degli spazi) del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle e all’associazione Amici del Colosseo connessa al blasonato sponsor dei restauri, non resta che contare le briciole che arrivano nelle tasche dello Stato, denaro di certo insufficiente – contrariamente alle dichiarazioni del ministro – al potenziamento della tutela e della ricerca. Malgrado il raggiungimento dell’agognato podio, non vi è dunque niente da festeggiare e bisognerebbe riflettere, piuttosto, sull’istituzione del numero chiuso giornaliero con visite contingentate per un edificio al limite della sostenibilità. Al terzo posto della graduatoria, dopo le Gallerie degli Uffizi, si colloca il Parco archeologico di Pompei, che con 3.937.468 presenze è addirittura in crescita rispetto allo scorso anno. Sarebbe tuttavia interessante conoscere nel dettaglio il numero di ingressi relativi a Pompei e quelli registrati invece ad Oplontis e Stabiae, per citare solo due fra i siti vesuviani che afferiscono al Parco senza trarre vantaggio dalla strategia di promozione (e dalla conseguente esposizione mediatica) messa in atto dal direttore Massimo Osanna con l’obiettivo di trasformare Pompei nel paese dei balocchi del turismo globale.
Per restare in Campania, più di tre milioni di visitatori separano il Parco archeologico di Ercolano, tredicesimo in classifica con 558.962 presenze, da quello di Pompei. Una distanza siderale e culturalmente ingiustificabile, dovuta soprattutto alle scelte politiche che in questi ultimi anni hanno puntato su una sola fra le città antiche distrutte nel 79 d.C. dall’eruzione del Vesuvio. Non stupisce invece il successo del Museo archeologico nazionale di Napoli che occupa il decimo posto con 670.594 ingressi. Sotto la guida di Paolo Giulierini, l’istituzione partenopea ha ricevuto un apprezzabile «svecchiamento» diventando però nel contempo una fucina di eventi acchiappa-masse, che strizzano più spesso l’occhio al marketing che alla conoscenza. E se la gran parte dei musei e dei parchi archeologici in classifica godono della tanto decantata autonomia, ci si chiede in che posizione stiano rispetto ai Trenta il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria e quello di Taranto, nonché il «tempio» etrusco di Villa Giulia e il Parco dell’Appia antica a Roma, anch’essi autonomi. Opinabile appare l’inserimento in tale graduatoria del Museo Egizio di Torino (sesta posizione, 853.320 visitatori), unico esempio italiano di partecipazione del privato alla gestione di una collezione pubblica. Insomma, affinché l’elenco dei «migliori» possa servire da base per pianificare il futuro senza crogiolarsi sui numeri, sarebbe opportuno tenere conto di parametri diversificati. Non si può infine tacere sui poli museali «periferici», presidi di resistenza a corto di fondi e personale. Strappati alle sovrintendenze territoriali in nome di una fantomatica valorizzazione, questi inestimabili scrigni dell’eredità storica del Paese giacciono imbrigliati nelle maglie di un sistema che toglie risorse alla cultura in favore di logiche di mercato.
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