Cultura

Musei, l’arte non è più coloniale

Musei, l’arte non è più colonialeVeduta della mostra «Arte dall’Africa nera» al Kunsthaus Zürich, 1970-’71, Kunsthaus Zürich, Biblioteca ( – Foto Walter Dräyer

Interviste Parla Esther Tisa Francini, fra le curatrici della mostra al Rietberg di Zurigo, «In dialogo con il Benin: arte, colonialismo, restituzione», visitabile fino al 16 febbraio 2025. «È importante che le ricerche sui paesi di provenienza delle opere siano svolte in comune. Una mediazione condotta in collaborazione è un punto di partenza possibile»

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

La prima passeggiata virtuale in Africa è a Igun Street (Benin City, Nigeria), proposta dalla fotografia di Omoregie Osakpolor. Non è una strada qualunque, ma la via che ospita le corporazioni dei fonditori, trasformandosi così in un centro artistico d’eccellenza. L’occupazione coloniale è invece raccontata poco dopo dalle sequenze di un film: la linea della storia segna l’anno 1897 quando gli inglesi conquistarono e razziarono il Regno del Benin – il palazzo reale fu distrutto, il patrimonio disperso e venduto sul mercato straniero.

La mostra In dialogo con il Benin: arte, colonialismo, restituzione al museo Rietberg di Zurigo (visitabile fino al 16 febbraio 2025) ricomincia da qui, indagando fra le pieghe di un passato spinoso e cercando un filo comune per rintracciare i traumi politici e culturali vissuti dal Regno del Benin, un tempo collocato nell’attuale Nigeria. La rassegna nasce da una stretta collaborazione di studiosi e studiose residenti in Nigeria, in Svizzera o appartenenti alla diaspora: le curatrici – Josephine Ebiuwa Abbe, Solange Mbanefo, Michaela Oberhofer ed Esther Tisa Francini – esplorano la vasta materia del saccheggio dei beni artistici (un saccheggio che è sempre profondamente simbolico, non solo moltiplicatore di profitto economico) concentrandosi su quello perpetrato dalla potenza coloniale britannica per ricollegarlo al presente. Filmati e interviste con esperti provenienti da musei e università, specialisti del Palazzo reale concorrono a tessere la trama di una lunga storia, consegnandola a una pluralità di voci. Infine, alcuni artisti contemporanei invitati a esporre lasciano riaffiorare alcuni sottotesti tematici come la schiavitù, gli inciampi della memoria, le «terapeutiche» restituzioni. Un campo spinoso quest’ultimo, che attraversa più paesi e epoche, confrontandosi con le vicende coloniali ma anche con l’eredità di popoli divenuti poi diasporici.

«L’esposizione al Rietberg ha optato per un approccio pluridimensionale al colonialismo: parla del Regno del Benin e prende in considerazione la prospettiva Edo – spiega la curatrice Esther Tisa Francini, che ha al suo attivo anche studi sulla circolazione nel mercato internazionale degli anni ’30 e ’40 di beni predati dai nazisti –. La mostra ha come perno il potere coloniale britannico e la razzia di migliaia di opere dal valore commemorativo, storico e spirituale. Si investiga – narrando le ’biografie’ di quei manufatti – la loro ricezione in Europa, nelle mostre e nei musei, e la trasformazione degli oggetti in arte commerciabile. Nell’itinerario, c’è anche una piccola storia delle esposizioni con opere africane in Svizzera. L’allestimento ha un orientamento de-coloniale con immagini frammentate, dei lenticolari. È necessaria una prospettiva multipla che permetta diversi sguardi e voci intorno al patrimonio.

Ritratto di William D. Webster, ca 1890, The Trustees of the British Museum, Londra

I musei etnografici (e non solo) rischiano di essere messi in discussione nei prossimi anni o, paradossalmente, di svuotarsi: se non sono aggiornati, riverberano una visione gerarchica e decontestualizzano gli oggetti privandoli del valore simbolico. Ci può spiegare in che direzione sta andando il Rietberg di Zurigo?
Il museo svizzero lavora da decenni con un’attitudine collaborativa, ossia con artisti, ricercatori e curatori dei paesi d’origine. Al centro, c’è la ricerca sulla provenienza, fondamentale per affrontare tematiche come acquisizione, appropriazione o spoliazione delle opere. Oggi parliamo anche di relazioni etiche (Felwine Sarr / Bénédicte Savoy). Nei progetti collettivi si discute intorno alla storia delle collezioni, si sondano le nuove narrative e si individuano soluzioni per allestire mostre che superino l’eurocentrismo, accogliendo la polifonia del Benin e della diaspora.

Uhunmwu Elao, testa commemorativa di Oba Osemwende, Nigeria, Regno del Benin, Edo, dopo il 1848

Cosa racconta la mostra del Rietberg, in rapporto anche agli altri musei o alle istituzioni culturali che hanno sede nei luoghi di origine dei reperti?
Principalmente, presenta diverse storie che si possono collegare con le relative opere: la vicenda del Regno del Benin e la funzione nella performance, per fare esempio, di un gioiello di prestigio dell’Oba. Nello stesso tempo, ripercorre le vie della spoliazione e la successiva loro ricezione in Europa. Inoltre, assume un approccio olistico e integrativo mirato a raccontare tutta la «genealogia» di un manufatto, che include anche la sua provenienza, gli eventuali contesti problematici, gli illeciti compiuti nella creazione di raccolte nel Nord globale, nell’occidente. Le opere che, dopo un’approfondita ricerca, sono state classificate come rubate hanno un bollino rosso con l’annotazione «restituzione in dialogo». Parliamo del passato, del presente e del futuro – per poter dare spazio a diversi punti di vista.

Con quale «riscrittura» concettuale un museo può dunque gestire le sue raccolte, sfidando il «profilo» di oggetti trafugati, portati via con la violenza durante l’epoca del colonialismo?
È importante che le ricerche siano svolte in comune, lavorare anche su nuove affabulazioni, sull’allestimento dei reperti. Una mediazione condotta in collaborazione è un punto di partenza possibile. Ciò significa integrare varie prospettive. Le collezioni storiche vengono accompagnate da installazioni contemporanee che riflettono la questione coloniale, lo squilibrio del potere e l’accumulazione di tali collezioni in alcuni musei europei. Un’attitudine aperta verso un dialogo sul futuro delle opere può portare a delle restituzioni, a un trasferimento di proprietà con prestiti e circolazione fra musei nel mondo intero: è un passo inevitabile per una società globale più giusta.

Qualche anno fa, il Branly di Parigi ha restituito 26 opere alla Repubblica del Benin. È stato un gesto di ispirazione per voi?
L’azione di Macron ha rappresentato sicuramente un cambiamento paradigmatico per il mondo dei musei. Altri fattori che hanno permesso ciò sono stati il movimento Black Live Matters e la discussione intorno all’Humboldt Forum di Berlino: hanno permesso un salto di qualità spingendo in avanti la discussione e proponendo mosse concreti per il ritorno di opere trafugate. In Francia era una volontà politica. In Svizzera partiamo dalle ricerche svolte in comune con la Nigeria e l’area diasporica, è un altro approccio. La restituzione di Macron riguardava il vecchio regno Dahomey, oggi Repubblica del Benin, che subì la razzia nel 1892 dai francesi. Noi ci addentriamo nella conquista britannica del Regno di Benin, oggi Nigeria. Sono due storie e due paesi differenti.

Cosa pensa invece della «cancel culture» e dell’abbattimento di statue e monumenti del colonialismo?
Monumenti e statue possono considerarsi alla tregua dei documenti negli archivi. Bisogna saperli contestualizzare, senza eliminarli. Sono le tracce del tempo e hanno un impatto nel presente. Senza disconoscere le vicende negative del passato, ha senso educare i cittadini e i visitatori proprio attraverso questi monumenti, esplicitando i rapporti economici, il mondo squilibrato del colonialismo, lo sfruttamento ad esso sotteso. Possono essere considerati anche come una chance per creare uno spazio di riflessione. C’è un parallelo con le opere del Benin: non si restituisce per non averle più, ma per intrecciare nuovi rapporti, riconsegnando anche un sapere negato.

Diversi artisti contemporanei sono stati invitati a esporre…
Bisogna conoscere il passato per costruire nel presente un futuro più imparziale, equilibrato e pacifico. Sono convinta del potenziale della storia per capire la nostra contemporaneità e per agire un domani. La mostra di Zurigo propone questo colloquio e collega opere di epoche più antiche ad altre recenti, realizzate in virtù della mostra.

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