Musei, la violenza occultata
Il colonizzatore che, per giustificarsi agli occhi della propria coscienza, si abitua a vedere nell’altro un animale, abituandosi a trattarlo da bestia tende oggettivamente a trasformare se stesso in bestia. […]
Il colonizzatore che, per giustificarsi agli occhi della propria coscienza, si abitua a vedere nell’altro un animale, abituandosi a trattarlo da bestia tende oggettivamente a trasformare se stesso in bestia. […]
Il colonizzatore che, per giustificarsi agli occhi della propria coscienza, si abitua a vedere nell’altro un animale, abituandosi a trattarlo da bestia tende oggettivamente a trasformare se stesso in bestia. È questo effetto, questa ripercussione della colonizzazione che è importante segnalare». Alice Procter ha scelto le parole del poeta antillano Aimé Césaire, il tuttora urticante Discorso sulla colonizzazione (1955), per aprire le pagine del suo ultimo (e primo) libro. The Whole Picture. The colonial story of the art in our museums and why we need to talk about it, uscito nello in Gran Bretagna (Hachette UK, pp. 304, euro 17,99) è infatti la monografia d’esordio della giovane, non ancora trentenne, autrice di origine australiana, la cui breve biografia registra studi di storia dell’arte e di antropologia all’University College di Londra e, soprattutto, un’intensa produzione di eventi, progetti, interventi espositivi ed educativi nei e sui musei londinesi.
The Exhibitionist.org è il sito cui Procter ha affidato le tracce e i podcast degli Unconfortable art tours da lei condotti senza autorizzazione nel 2017 tra le sale della National Gallery, della National Portrait Gallery, del British Museum, del Victoria and Albert Museum, della Tate Britain e della Queen’s House (National Maritime Museum), un’esperienza di cui ora The Whole Picture restituisce, con piglio ancora militante, le ragioni, i risultati, le prospettive, accompagnandoli a una riflessione di più ampio, e comunque poco accademico, respiro. Una riflessione che ha, certo, l’urgenza bruciante dell’attualità e persino della cronaca, e che però non rinuncia al piacere del racconto, alla ricostruzione minuziosa delle opere e delle collezioni, oggetto di un lavoro di svelamento e di rilettura che l’autrice affida a una scrittura limpida e vivace.
Eppure, al di là della leggerezza dei toni, non priva di humor, il libro ha la gravità, la serietà inesorabile di una denuncia, sempre circostanziata, del costante lavoro di cancellazione, di dissimulazione, a volte anche di deciso tradimento, della complessità della storia di cui i musei sono stati e sono tuttora protagonisti. Procter, che nelle pagine introduttive dichiara come movente del libro la frustrazione provata nei confronti dei corsi ufficiali di storia dell’arte britannici nei quali, scrive, «è completamente ignorata la storia coloniale e imperiale che ha creato i musei e le gallerie in cui studiavamo», non si misura affatto, va detto, con il dibattito critico e museologico che negli ultimi decenni ha affrontato, anche con ricchezza di tesi e di indicazioni, la questione di come «decolonizzare» le istituzioni culturali e, in particolare, il museo. Quanto è stato prodotto dagli studi postcoloniali non viene qui discusso, neppure come premessa, ed è appena una rapida citazione quella dedicata a Mary Louise Pratt che nel suo Imperial Eyes: Trave and Transculturation (1992) definiva la nozione di «zona di contatto», uno spazio di controversa «compresenza spaziale e temporale di soggetti in precedenza separati da iati geografici e storici», che l’antropologo James Clifford ha poi suggerito di adottare proprio per i musei, immaginando di fare di questi ultimi appunto delle attive, e anche opportunamente conflittuali, zone di contatto. Di questo, come pure delle tante altre proposte maturate nell’ambito della museologia critica, che da tempo ormai segnala la necessità di dichiarare la non-neutralità dei discorsi museali e di rivendicarne tutta la parzialità e responsabilità, non c’è esplicito riferimento in The Whole Picture, che si offre piuttosto come un riuscito esercizio di dimostrazione, di puntuale verifica e applicazione di quelle stesse tesi attraverso l’analisi di casi esemplari.
Più che l’architettura del libro, scandito in quattro parti corrispondenti a quattro tipologie di musei o di situazioni espositive – The Palace, The Classroom, The Memorial, The Playground –, a essere convincenti ed efficaci, infatti, sono proprio le ricostruzioni storico-critiche dedicate a specifici reperti, opere, immagini, collezioni conservati ed esposti nei musei o negli spazi pubblici, oggetto di indagini ravvicinate ma anche di «sguardi da lontano» in grado di mostrare il «non detto» coloniale e razzista che la sedicente oggettività del display occulta e sopisce, grazie anche alla colpevole reticenza delle didascalie, senza firma e senza responsabilità.
Che si preoccupi di mettere in piena luce ciò che si cela dietro l’innocenza apparente dei dipinti, dando così finalmente chiara voce all’ideologia che li informa – è il caso, ad esempio, dell’allegoria The East Offering its Riches to Britannia (1778) commissionata dalla Compagnia delle Indie orientali e ora esposta, certo non casualmente, nella sede centrale del Foreign Office britannico, o, ancora, dei ritratti in cui noti e meno noti pittori (Joshua Reynolds, tra gli altri) hanno dipinto con esotico gusto Mai, il primo uomo del Pacifico giunto a Londra al seguito di Cook –, o che si occupi di riannodare i fili spezzati che legano le collezioni private a quelle dei musei, come accaduto per la Tipu’s Tiger, oggi al Victoria and Albert Museum, conteso bottino di guerra proveniente dal sultano di Mysore, o per lo scudo di legno appena visibile nella Enlightenment Gallery al British Museum, un umile reperto che in realtà è il primo oggetto sottratto agli aborigeni australiani, Alice Procter mantiene salda e sempre leggibile l’intenzione politica del suo saggio, che invita con decisione il visitatore dei musei a riconoscere e ad esercitare tutto il suo legittimo potere di critica nei confronti delle istituzioni museali ed anche delle politiche culturali nazionali. Perché se il focus del libro è, sicuramente, lo svelamento del carattere ideologico delle narrazioni museali e, quindi, la necessità di rimettere nuovo ordine nelle collezioni per renderne pubbliche le storie di razzismo e di sopraffazione (e il modello resta il seminale progetto Mining the museum, la mostra con cui nel 1992 l’artista afro-americano Fred Wilson ha riscritto le raccolte del Maryland Historical Society Museum), The Whole Picture sconfina ben oltre il recinto, comunque privilegiato, del museo.
E non poteva essere diversamente perché è proprio nell’aperto della città, nelle piazze e nei parchi, che, è cronaca recente, la matrice coloniale e razzista di sculture e monumenti produce i suoi effetti più deflagranti, suscitando reazioni dure e divisive. Procter anche a questo proposito segnala episodi e situazioni – l’intervento degli attivisti che a Briston hanno aggiunto alla statua del mercante di schiavi Edward Colston la scritta «Unauthorised Heritage», il movimento che nel 2015 a Cape Town ha portato alla rimozione del monumento a Cecil Rhodes, fondatore di una compagnia coloniale – sottolineando come, al di là delle strategie di volta in volta adottate, a restare comunque aperta sia la questione di una memoria condivisa da costruire. Perché più del risarcimento simbolico rappresentato dai, peraltro ancora rari, monumenti «ai vinti», a contare poi davvero è che, nelle sale dei musei come nelle piazze, la storia (dell’arte) non sia un’anonima, autoritaria prescrizione da seguire ma lo spazio di un riconoscimento e una prospettiva da immaginare insieme.
Magari con l’aiuto degli artisti: a Trafalgar Square il profilo netto della scultura di Lamassu, il toro alato della porta di Ninive distrutto dall’Isis e ricostruito con lattine usate di succo di datteri da Michael Rakowitz, è stato fino a qualche mese fa un ammonimento e una fragile speranza: The invisible enemy should not exist.
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