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Musei, il rimosso dell’istituzione da Breton a «Parti pris»

Musei, il rimosso dell’istituzione da Breton a «Parti pris»André Breton nell’atelier parigino, 1955, foto Sabine Weiss.

Scardinare gli ordinamenti In «Torna diverso», Gli Ori, Stefania Zuliani ragiona sulla crisi del museo didascalico a partire da una serie di esempi storici che già suggerivano la necessità, oggi così avvertita, di punti di vista soggettivi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 giugno 2023

Il museo è da sempre un luogo bizzarro, capace di suscitare opinioni e sentimenti contrastanti. D’altronde, osserva Stefania Zuliani, il museo non può «restare immune dai turbamenti e dalle urgenze della storia, di cui è specchio infedele e attiva officina». Esperta di questo particolare ambito d’indagine, Zuliani propone un nuovo contributo alla riflessione nella forma di un’agile miscellanea: Torna diverso Una galleria di musei (pp. 96, Gli Ori, € 16,00).

Ogni capitolo rielabora testi scritti per occasioni differenti, eppure tutti contraddistinti da una erudita coerenza e riconducibili a un orizzonte concettuale che nel museo vede un organismo dinamico, mutevole e sensibile all’esperienza soggettiva di chi lo vive, per lavoro e per diletto. Lucidamente, Zuliani dichiara la natura ambigua del museo, il carattere basilare che lo rende a un tempo strumento di controllo o di liberazione. «Ogni museo in realtà conosce, come ci hanno mostrato gli artisti dell’Istitutional Critique, la colpa e la violazione, è sempre e necessariamente tendenzioso e partigiano, autoritario e seducente, mai neutrale nel raccontare storie e nel costruire sequenze, persino violento quando strappa gli oggetti dai contesti di origine e li condanna – fine pena mai – al trionfo inanimato dell’esposizione».

La raccolta inizia dal ricordo di Alexander Dorner, direttore del Landesmuseum di Hannover, del quale si celebra l’importante saggio Why Have Art Museums? (1941). Più nello specifico, viene rievocata un’opera, a metà tra installazione e allestimento, che riuscì a interrogare il ruolo dell’istituzione museale nella società moderna: il Kabinett der Abstrakten, celebre e ormai distrutto ambiente espositivo commissionato a El Lissitzky e alla cui realizzazione, ultimata nel 1927, Dorner partecipò «in maniera tanto significativa da renderne persino discussa l’attribuzione». Il Kabinett, definito da Alfred Barr «la stanza più famosa al mondo dell’arte del Ventesimo secolo», era stato pensato come una tappa all’interno di un percorso articolato. Doner, preferendo le incognite del divenire all’illusione di un ordine stabile, immaginò infatti il Kabinett come un’alternativa tanto alla logica allora dominante del museo di ambientazione, quanto a quella formalista, di cui proprio il MoMA era il campione.

Il volume prosegue con due saggi, dedicati a Breton e Freud, che trattano entrambi del connubio tra l’allestimento di una collezione e le risorse dell’inconscio. Se si tiene conto delle trasformazioni radicali alle quali è andata incontro l’istituzione museale, dove è messa in discussione l’imparzialità dei criteri di esposizione, e dove i curatori dei musei si assumono il rischio delle proprie scelte attribuendo persino una scadenza a ordinamenti che non provano neppure più a definirsi permanenti, allora l’atelier parigino di André Breton al 24, rue Fontaine assume «un valore esemplare e persino profetico».

In effetti, viene spiegato, la prima collezione, iniziata quando Breton lavorava come consulente per lo stilista Jacques Doucet negli anni venti, è oggi dispersa e solo parzialmente nota; la sua consistenza è dubbia e restano poche fotografie a documentarne l’organizzazione. Tuttavia, le evidenze storiche raccontano di uno spazio con centinaia di oggetti stipati, a prima vista senza criterio, «che ricoprivano le pareti e riempivano gli stipi in una costruzione spaziale di convulsiva bellezza». Era insomma il luogo di una pratica dello sguardo rapido e attivo, tanto quanto quella della scrittura, un luogo in cui Breton operava continui cambiamenti per propiziare metamorfosi e sortilegi.

Similmente, anche Sigmund Freud considerava i pezzi della collezione nel proprio studio nella casa in Berggasse 19 a Vienna non come semplici oggetti da contemplare, bensì quali misteri da avvicinare e semmai evitare, nell’eventualità di provocare la scintilla dal cui incanto «dipende il valore dell’immagine che l’ha generata». Quello che Freud aveva allestito era infatti un «teatro dell’antico, un compendio della sua visione della civiltà del quale egli costantemente ridisegnava le geometrie durante le lunghe conversazioni con gli allievi (…) e, soprattutto, era un dispositivo di riflessione che agiva come catalizzatore di immagini e pensieri anche nel corso delle sedute». In sintesi, l’indicazione utile è la possibilità di eludere la sterilità di ordinamenti puramente didascalici nell’esibizione delle cose, accogliendo l’idea dell’accostamento spiazzante. Di contro, avverte Zuliani, bisognerebbe arginare la tentazione, oggi dilagante, di presentare qualsiasi accumulazione come una Wunderkammer, una stanza delle meraviglie.

Il libro si sofferma inoltre su Parti pris, un esemplare progetto espositivo, all’avanguardia rispetto agli sviluppi della museologia contemporanea, tenutosi al Grand Louvre negli anni novanta e strutturato secondo un ciclo di mostre affidate di volta in volta alla cura di diversi intellettuali. Promosso da Régis Michel, già conservatore del Dipartimento delle arti grafiche del Louvre, e realizzato con la collega Françoise Viatte, Parti pris offriva punti di vista «eccentrici ma non per questo incongrui o, peggio, sconsiderati, in grado piuttosto di far riemergere il rimosso del museo, di scardinarne le logiche autoritarie e di restituirne, soprattutto, la vitalità e la necessaria incompiutezza».

In filigrana traspare la fascinazione di Zuliani per la commistione dei codici: arti visive, performative e soprattutto letteratura…, segno inconfutabile di una energia benefica. In tal senso va probabilmente inteso il rimando a Giorgio Manganelli, che a proposito del museo si pronunciò con sferzante facondia. «Io diffido dei musei, in primo luogo dei musei istituzionali, che tendono a raccogliere e catalogare “tutto”. La biblioteca è pedante ma onesta. Non pretende di essere unica. Il museo esige di essere solitario, esemplare, irripetibile. È fatto di oggetti unici. Ogni esempio è una preda, comprata, catturata, deportata, scovata, scavata, rubata, corrotta, scambiata, trafugata. Un museo presuppone una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e concluso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano. Un museo nasconde una macchinazione, una prepotenza, una frode». Benché sembri una sentenza, nella prospettiva dell’autrice l’invettiva di Manganelli suona piuttosto come un auspicio affinché il museo prosegua nel suo flusso di mutazione.

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