«Arte e Storia, Filologia e Favola, Documento e Romanzo si mescolavano in un composto lontano da noi molti anni luce, costituendo un’esperienza (e un insegnamento) di valore davvero unico». Questa citazione, riferita al Museo e tratta da un articolo di Federico Zeri del 1991 (Assassinio nel museo), figura in apertura del libro che Raffaella Fontanarossa ha pubblicato a per Einaudi: Collezionisti e musei Una storia culturale, «PBE Mappe» (pp. XXVIII-356, € 25,00).

Il titolo dice molto dell’impostazione scelta dalla studiosa per un argomento tanto vasto quanto multiplo e proteiforme. Fontanarossa traccia una vera e propria storia dell’istituzione museo, nata in pieno umanesimo: è del 1471 l’atto di donazione al popolo romano, da parte di papa Sisto IV, delle raccolte di bronzi che costituiranno il primo nucleo dei Musei Capitolini; mezzo secolo dopo Paolo Giovio usa il termine ‘museo’ per denominare la straordinaria raccolta di effigi di uomini illustri conservata nella sua villa sul lago di Como, e che l’erudito ha piacere di condividere con i suoi pari. Dunque, la fruibilità di una collezione è alla base dell’idea stessa di museo. Ciò che il libro di Fontanarossa mostra con chiarezza è la strettissima relazione della istituzione museo con i processi storici, economici e geo-politici, ma anche l’artificiosità della tradizionale distinzione tra museologia e museografia, perché è chiaro che i criteri di allestimento, la stessa architettura, sono strettamente funzionali all’impronta che si vuol dare a quel luogo.

Collezionisti e musei è esso stesso un libro-museo, in cui si possono ripercorrere, di sala in sala, la storia e la forma dei più importanti musei d’arte europei, poi nordamericani, la natura delle loro raccolte, le motivazioni e le modalità che ne hanno accompagnato la formazione, ma anche l’arrivo sulla scena del vero soggetto indispensabile al museo, il pubblico. Una storia che è al contempo tantissime storie diverse. Dal palazzo reale del Louvre, dove le opere degli allievi della Académie royale de peinture et sculpture diverranno il primo nucleo del Musée Révolutionnaire, alle settecentesche accademie d’arte, con le loro raccolte di copie a scopo didattico. Dagli ordinamenti museali messi in campo dai primi eruditi e storici dell’arte (Luigi Lanzi per i nuovi Uffizi aperti al pubblico nel 1769), ai musei come contenitori di capolavori decontestualizzati, funzionali a un’ ‘estetica’ più che a una storia delle arti figurative: così Villa Albani, concepita dal cardinale Alessandro assieme a Winckelmann e Mengs agli albori dell’epoca neoclassica: idea riecheggiata, negli anni venti del Novecento, da Roberto Longhi, il quale afferma che «il fine dei musei è dunque in alto senso cultura estetica, e non didattico; contemplativo e non pedagogico», frase che indirizzerà in senso purista le ricostruzioni e gli allestimenti museali del secondo dopoguerra in Italia. E poi i giardini e gli orti botanici, veri e propri ‘musei a cielo aperto’ del Cinquecento, o gli strepitosi musei di storia naturale d’epoca illuminista.

Perché il museo fin dall’inizio ha vocazione universale, è luogo di conoscenza e di divulgazione della conoscenza. Nell’Europa industriale di metà Ottocento le esposizioni universali orientano la formazione dei primi musei d’arte applicata, concepiti come una grande «aula scolastica per tutti»; è così che nasce, primo di una lunga serie, il South Kensington Museum, nel 1899 ribattezzato Victoria and Albert. Proprio le esposizioni universali, musei effimeri, sono all’origine di un fatto nuovo. Se in Occidente il museo è principale ‘luogo di memoria’, nel mondo orientale non esiste un corrispettivo, i vocabolari neanche dispongono di una parola che possa tradurne il concetto in modo appropriato. Le delegazioni nipponiche che negli anni sessanta dell’Ottocento visitano le esposizioni di Londra e Parigi, per descrivere quei padiglioni in cui si affastellano inusitate quantità di oggetti ricorreranno a descrizioni ellittiche o conieranno neologismi approssimativi (hakubutsukan, «casa delle cose»). Eppure da quell’incontro difficoltoso tra Occidente e Oriente, da quello choc persino, nascerà una contaminazione, vera forma di acculturazione, in cui, almeno inizialmente, è il modello europeo a imporsi.

Jean-Louis David «La mort de Marat», Reims, Musée des Beaux-Arts

Con una distinzione essenziale, tuttavia. Se presso gli occidentali vige il dogma dell’originale, nel Sol Levante come in Cina si lascia terreno libero alla copia: è attraverso l’esercizio sapiente della riproduzione, della ricreazione manuale di un qualcosa che all’origine è estremamente deperibile ed effimero (un paravento, un kimono, un giardino zen) che in Oriente si compie l’atto della conservazione.

La sezione più innovativa e più appassionante del volume è quella che Fontanarossa dedica al museo della seconda metà del XX secolo e del terzo millennio, cercando di far luce su quale sia il destino di questa antichissima istituzione in un mondo, come si suol dire, globale, in una società sempre più dematerializzata, ipertecnologica e soprattutto ‘liquida’. Moltissimi sono i piani su cui si muove il ragionamento dell’autrice, dalla conservazione del contemporaneo, al tema dell’inclusività e della ‘mediazione’, al fenomeno della gemmazione dei grandi musei (Guggenheim, Louvre), alla nascita dei grandi poli privati, alla riflessione sugli usi museali della tecnologia digitale e del multimediale.

E infine il grande tema del museo post-coloniale, polo culturale in cui attuare un ribaltamento del paradigma identitario, un esercizio di rinnovamento dello sguardo in senso anti-etnologico e non-eurocentrico; Fontanarossa descrive bene queste esperienze dell’oggi, con aggiornati capitoli dedicati alla Cina, al Giappone, all’Australia e soprattutto all’Africa sub-sahariana, dove, avverte, emergono nuove (antiche) contraddizioni: si veda il Musée des civilisations noires di Dakar, museo statale aperto nel 2018, ma con consistenti finanziamenti versati proprio dalla Cina.

Di «assassinio» parlava dunque Zeri, per una istituzione che col tòpos della morte e del cimitero ha sempre dovuto fare i conti. Di certo il museo è molto cambiato, trasformato dalle profonde mutazioni sociali, stravolto dagli avanzamenti tecnologici, assalito da una economia di mercato sempre più fagocitante. Viene alla mente quel piccolo gioiello che resta Nel museo di Reims (1988) di Daniele Del Giudice: racconto onirico, in cui il protagonista, consapevole di star perdendo la vista, desidera con tutto se stesso vedere La morte di Marat di David; le descrizioni della giovane Anne che lo accompagna non soddisfano l’urgenza del protagonista, che deve «vedere il tutto». Farsi raccontare i dipinti di un museo è un atto riduzionista quasi disumano. Entrare in un museo, camminarci, significa aprirsi a quella Erlebnis, a quella ‘esperienza vissuta’ che prepara alla profonda appropriazione di senso delle opere d’arte.

Perché il museo può essere il luogo della rigenerazione. In Giappone, il Museo d’arte di Teshima è il museo del vuoto e dell’impermanente. Chi vi giunge, dopo un lungo percorso nella natura, vi entra a piedi nudi, privato di ogni dispositivo tecnologico, e non deve far altro che sedersi e contemplare il cielo e il bosco che mutano a ogni istante, far corpo con la luce, il vento o la pioggia che penetrano attraverso le due grandi aperture sul soffitto. Inaugurato nel 2010, a meno di mille chilometri e sei mesi prima della disastrosa esplosione di Fukushima, il Teshima bijutsukan è il luogo del rispetto. È il museo più umanista che oggi si possa concepire.