Murgia, se la fede aggiunge libertà a un percorso di emancipazione
Michela Murgia – Foto Ansa
Italia

Murgia, se la fede aggiunge libertà a un percorso di emancipazione

Intervista Parla Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, studiosa di filosofia della differenza e di teologia di genere. «Lei ci ricordava che quando si ordina il mondo in un voi e noi, si fa violenza a tutte le vite che non possono riconoscersi in quei confini»
Pubblicato circa un anno faEdizione del 13 agosto 2023

Il rapporto tra fede religiosa e libertà, i nessi che legano cristianesimo ed emancipazione. Due nodi intorno ai quali Michela Murgia, credente, ha a lungo lavorato. Un rito cattolico, celebrato nella Chiesa degli artisti, ieri pomeriggio ha accompagnato la scrittrice e militante politica nel suo ultimo passaggio.
Ma qual è stato il cattolicesimo di Michela Murgia? A quale campo più largo di dibattito e di confronto ha dato il suo contributo l’autrice di Ave Mary, e con quali tratti di originalità? Abbiamo girato queste domande a Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, studiosa di filosofia della differenza e di teologia di genere, docente all’Istituto di scienze religiose San Pietro Martire di Verona.

Cattolicesimo e libertà: un nodo teorico al quale Murgia ha dedicato molta attenzione. Lo stato della discussione su questo aspetto?
Sì, quello che unisce cattolicesimo e libertà è stato per Michela Murgia un nodo teorico, ma in un senso profondo e mai astratto. È il nodo di una rete concreta e reale: il nodo di quella rete a volte invisibile, altre evidente, che ci tiene insieme nelle nostre differenze. Murgia ha sperimentato la forza, la bellezza e la resistenza di questo nodo proprio nel vangelo. In quella storia, ha incontrato una verità che non serve tanto a dire che cosa è vero e che cosa è falso, ma a liberare le vite e a renderle radicali, coraggiose e giuste nelle relazioni affettive, nelle relazioni di prossimità, e anche in quelle conflittuali dove il nemico si trova posto in una nuova luce.
Per Michela la vera cartina tornasole del discorso è ciò che in teologia chiamiamo salvezza, dunque il lato positivo dell’esistenza, la felicità e la pienezza dei legami con Dio, tra noi e con il mondo. Nel nome di questa salvezza e di una creazione che non si compie nel settimo giorno in quanto è anche nelle nostre mani, nelle nostre parole, nei nostri cammini, ha cercato punti di convergenza tra la fede e i movimenti di lotta delle categorie oggi discriminate. Si è chiesta: come può la fede aggiungere libertà ai nostri percorsi di affrancamento dalle tante schiavitù contemporanee? In che modo questi percorsi possono diventare inclusivi, alla ricerca di quella ospitalità che Gesù attesta nei vangeli come il proprio stile di vita? E aveva una certezza: «Ogni risposta che non vada verso la libertà è sbagliata».

Il tema della famiglia. Murgia mette l’accento sulla affettività come centro, oltre i ruoli e oltre i generi. Anche su questo punto la discussione è aperta dentro il campo cattolico…
Credo che ormai tutte e tutti noi consideriamo l’affettività come l’energia che tiene insieme una famiglia. Oggi, e per fortuna, è (quasi sempre) l’amore il motivo che dà senso alla nostra storia relazionale: le nostre famiglie si formano per amore, i legami tra noi e i nostri figli/le nostre figlie sono più affettivi che legati al potere di una generazione sull’altra, lo squilibrio tra donne e uomini è ormai giudicato innaturale e una famiglia non è mai percepita come un’istituzione. La discussione in campo cattolico è certamente aperta, ma quasi mai si mantiene aderente al piano affettivo. Come scrive la psicoanalista non credente Julia Kristeva, il cristianesimo ha delle storie meravigliose sull’amore – come sul dolore e sull’orrore – ma sembra non essere più capace di raccontarle e la conseguenza è evidente: siamo analfabeti, credenti e non credenti, riguardo la radicalità dell’amore evangelico.

Che cosa si può dire del pensiero queer, approdo ultimo della scrittrice?
Queer era per Michela Murgia un modo per ricordarci che quando si ordina il mondo in un qui e là, in un voi e noi, in un o così o niente, si fa violenza a tutte le vite che non possono riconoscersi in questi confini. Ha voluto vivere in quella terra di mezzo che spesso nel cattolicesimo fingiamo di non vedere. Il suo Dio l’ha condotta lì, dove «passa con fatica il vivere quotidiano di milioni di persone, che soffrono l’emarginazione nella Chiesa cui sentono di appartenere e che vorrebbero continuare a credere in Dio senza percepirsi come un’anomalia dentro la propria comunità di fede»: il Dio che conduce le spose nel deserto è anche il Dio che porta le persone credenti ai margini della storia. È un Dio queer? Sì, perché è un Dio uno e trino, misericordioso e giusto, onnipotente e straziato sulla croce, morto e risorto, in sé e per il mondo.


Il saluto di Aldo Tortorella e Vincenzo Vita

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento