Alice Munro ha raggiunto fama mondiale con il genere letterario meno amato dal mercato e meno considerato dai critici, il racconto, e ci è riuscita eludendo tutte le norme su cui concordano i teorici delle forme brevi, da Edgar Allan Poe in avanti.

IN EFFETTI, mentre il racconto tradizionale è conciso, occupa un breve arco di tempo e uno spazio ridotto (quasi sempre obbedisce alle unità aristoteliche di tempo e spazio), e la sua trama è intessuta piuttosto di emozioni che non di fatti, le short stories di Munro sono piuttosto lunghe, le vicende a volte si svolgono nell’arco di anni e persino decadi e, anche quando sono ambientate nell’Ontario rurale, spesso narrano il passaggio delle protagoniste dalla provincia alla metropoli (e viceversa). Inoltre, invece di cercare la complicità di chi legge attraverso una sorta di stenografia emozionale, fatta di allusioni e suggestioni, com’è proprio delle short stories classiche, i racconti di Munro stabiliscono un legame con chi legge, una sorta di identificazione empatica che, secondo i teorici del genere, sarebbe impossibile raggiungere nel racconto tradizionale. Lirismo e frammentazione, caratteristiche basilari delle forme brevi, sono usati da Munro per rappresentare la realtà con non comune lucidità e una certa, impalpabile, asprezza.

MA SOPRATTUTTO, attraverso la short story (e la novella, ovvero il racconto lungo) Munro ha sempre offerto una visione nitida e spesso tutt’altro che politically correct di uomini e donne del suo – del nostro – tempo, sfidando non solo l’ideologia della cultura maschile dominante, ma sovente anche quella di gruppi benpensanti femminili o femministe ortodosse.
Se, come ha affermato lo scrittore canadese John Metcalf, la prosa di Munro ha lo stesso effetto della poesia, in cui una singola immagine convoglia molteplici livelli di significato, questo approccio lirico conduce nelle sue storie a un’esplorazione poetica della vita subalterna – l’universo femminile in tutte le sue sfaccettature, l’oscura provincia canadese, la malattia terminale, gli emarginati.
La stessa Munro ha spiegato il proprio lavoro in un celebre saggio del 1982, in cui paragona il racconto a una casa, dove l’autrice entra e si sistema per un po’, dopo averla esplorata: una casa in cui gli spazi interni sono interconnessi e le finestre presentano diverse angolature di ciò che sta all’esterno, una casa che si costruisce attorno al «sentimento» indescrivibile che è l’anima della storia, con materiali raccolti nel corso del tempo, ricordi e osservazioni tratti dal reale intrecciati a situazioni del tutto inventate.

HÉLIANE VENTURA, una delle maggiori studiose europee di Alice Munro, ha commentato la sua morte con queste parole: «È l’unica scrittrice al mondo che si sia rivolta direttamente alla vita. Il suo ultimo libro si intitola Dear Life: è una sorta di lettera scritta alla Vita, e le storie in esso raccolte sono indirizzate proprio a quella Vita che lei ha celebrato in tutti i colori, dai più oscuri ai più luminosi. Era una narratrice di genio».