«A me interessa il linguaggio e l’essere» afferma Muna Mussie, testimoniando la tensione filosofica che illumina la sua pratica artistica. Nata come performer, prima con Teatrino Clandestino e poi con Teatro Valdoca, Mussie ha nel tempo intrapreso il proprio percorso intrecciando i momenti scenici a pratiche allargate in cui innescare riti collettivi che facciano emergere elementi rimossi o soffocati.

Muna Mussie
Come smuovere la rigidità della storia, che sembra spesso un blocco inamovibile? Cercando di innescare dei riti, per non essere solo soggetti che ricevono passivamente È il caso di Oblio/Pianto del muro, installazione visitabile al Mattatoio di Roma fino al 5 giugno che arriva dopo un periodo di residenza in cui l’artista ha condiviso con un gruppo di persone una ricerca sul lamento e sul suo suono. Colpisce della pratica di Mussie l’attenzione alla singolarità dell’individuo, al suo particolare posizionamento e a ciò che può dare proprio per la sua peculiarità. Ne è un esempio Curva Cieca – in replica a Centrale Fies in Trentino dal 17 al 19 giugno – in cui Filmon Yemane, un ragazzo non vedente, riporta l’artista e noi con lei alla sua lingua materna, il tigrigno, attraverso un’avvolgente trasmissione di sapere e di immagini. Mussie è nata in Eritrea e arrivata a Bologna da piccola, un’eredità che indaga rifiutando spettacolarizzazioni e proclami, ma cercando di fare luce su quell’elemento intimo e problematico che dice chi siamo.

Il tuo interesse verso l’immagine è molto forte, come ne stimoli la creazione?

Domandare all’altro è l’unica possibilità per avere risposte su noi stessi, su chi domanda. È un dialogo in cui c’è una continua acquisizione e anche una perdita, un’indagine trasversale sul linguaggio di cui fanno parte le immagini che si creano in questi processi di attivazione. Oblio ad esempio è un luogo in cui poter portare in luce delle immagini intese come rimozioni, qualcosa che esiste ma non è ancora tradotto. L’oblio non so esattamente cosa sia ma è qualcosa che vuole manifestarsi, è l’esistente non pensato che deve essere portato sul piano dell’immagine e poi dopo parlato. Il ricamo per me è perfetto metaforicamente come forma con cui riportare qualcosa sul tessuto della realtà, ricamando si può inventare qualsiasi tecnica per lasciare un segno che poi può disfarsi. È un medium, una porta di accesso verso qualcos’altro, o una possibilità di essere al presente.

Muna Mussie in «Curva cieca» foto di Claudia Pajewski

Già alcuni tuoi lavori passati si confrontavano con il ricamo e il rapporto tra gesto e parola.

Sì, Punteggiatura era un libro di stoffa ricamato con testimonianze di una quarantina di donne provenienti da diversi luoghi, in quel caso si trattava di usare il ricamo non come forma decorativa ma come presa di parola in relazione alla femminilità e al ruolo in cui il ricamo è stato un po’ rinchiuso. Si trattava di incarnare la parola, animarla anche in rapporto alla storia che sembra spesso un blocco inamovibile nelle sue date e narrazioni distorte. Come smuovere quella rigidità? Cercando di innescare dei riti, per non essere solo soggetti che ricevono passivamente. A Centrale Fies presenterò anche l’esito di un workshop in cui ho messo in dialogo vedenti e non vedenti per interrogare l’immagine. Per farlo ho cercato di unire in linguaggio Braille con quello del ricamo, facendo interagire pratiche già presenti nel mio percorso in una traduzione costante.

La necessità dell’altro per conoscere se stessi è legata al non aderire ad una categoria precisa come può essere nel tuo caso quella di afrodiscendente? Mi sembra che tu voglia, giustamente, complicare il processo verso l’identità anziché semplificarlo.

Assolutamente, il concetto dell’identità secondo me si muove: non si ricerca una fissità ma un attraversamento che si nutre dell’entrare in contatto, in maniera sempre più veloce ormai. Allo stesso tempo c’è un desiderio di unicità che non è però un’entità già data, se guardo dall’esterno ciò che rappresento mi dà una sensazione di pesantezza. Parlo della mia esperienza, ma è solo un esempio, perché l’impossibilità dell’anonimato in una società per lo più bianca porta con sé una grande difficoltà. Chiaramente ho una determinata provenienza e me ne prendo la responsabilità, ma non mi interessa dover trattare necessariamente ciò che ora viene richiesto. Il mio lavoro è sempre stato legato al tema l’identità ma accedendo dal privato al pubblico, ad esempio quando ho portato in scena la storia di mia nonna che poi si intrecciava alla macro storia del Paese. C’era lì per me un elemento caldo, emotivo, ma questa direzione è stata spesso incasellata unicamente nel post-colonialismo, un interesse molto italiano di fare i conti con il passato, ma si chiede a me di farmene carico e di parlarne nonostante non sia stata io ad attivare quella storia. È un equilibrio delicato, sono contenta che si affrontino questi temi ma non voglio essere etichettata. Nell’ultimo lavoro che ho presentato ad Artefiera, Persona, c’è ad esempio un rapporto uno ad uno perché a me interessano soprattutto le relazioni con i singoli, è lì che percepisco un elemento vitale, che rimane anche quando si crea una sinfonia collettiva.