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Mrinal Sen, l’urlo della ribellione

Mrinal Sen, l’urlo della ribellioneA destra il regista Mrinal Sen

Cinema È scomparso all’età di 95 anni il maestro del cinema indiano, militante marxista della trilogia di Calcutta. Ha mostrato la miseria della società del suo paese non nella sua veste romantica, ma in quella spaventosa

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 10 gennaio 2019

È stato negli anni Ottanta che siamo entrati in contato con il cinema indiano attraverso una grande quantità di rassegne e personali, film presentati ai festival, dove si sono potute fare le prime grandi perlustrazioni su un paese dalla produzione cinematografica sterminata. Mrinal Sen, scomparso il 30 dicembre all’età di 95 anni era immancabile protagonista di quel panorama, coetaneo dell’artista umanista Satyajit Ray e insieme a lui punto di riferimento del cinema d’autore indiano, entrambi folgorati dal neorealismo e dalla nouvelle vague. Dichiaratamente marxista, impegnato e militante, il cinema di Sen non si è mai allontanato dal tema centrale della povertà, una fonte di ispirazione costante per i cineasti, ma che per lui è stato un urlo di rabbia. La povertà ai livelli più estremi è stato il soggetto principale dei suoi film anche quando ha messo in scena la classe media con le sue ambiguità. Tra i ricordi lontani dei suoi film emerge Khandhar (Tra le rovine, 1983) interpretato da Shabana Azmi, un’attrice altrettanto militante pur nella sua veste di star, un intenso racconto di quel che resta di una famiglia, una madre cieca assistita dalla figlia in una grande proprietà feudale, quando l’irruzione di visitatori provenienti dalla città rende più amara la solitudine che le circonda alla loro partenza, un film che è come il distillato delle sue opere precedenti.

ERA DIVENTATO famoso in occidente con la trilogia di Calcutta (Interview, Calcutta ’71, Padatik). Si definiva «un bengalese per caso», ma in quella città che lo ispirava con le sue visibili contraddizioni aveva messo in scena composizioni caleidoscopiche fatte di episodi e personaggi. Calcutta 71 presentato a Venezia era la cronaca della miseria dal 1830 al ’71 in cinque episodi, un tetto che potrebbe volare via, ladruncoli sul treno, il processo a un ragazzo che rubava da una vetrina un vestito per presentarsi a un colloquio di lavoro: potrebbe sembrare ispirato da Zavattini, ma come un Zavattini non bloccato dalla censura, come in Ladri di biciclette che era stato scritto con la scena finale del ragazzino che lancia una pietra contro la folla, scena proibita perché troppo ribelle. Mrinal Sen continua nei suoi film a lanciare pietre. Anche in Chorus (74) una serie di episodi mostrano la situazione sociale e politica del paese: usurai, sindacalisti, trentamila lavoratori in coda per cento posti.
«Un po’ di follia è necessaria in un paese conformista come l’India», diceva e forse appartiene a questa categoria Mrigaya (Caccia reale, ’76) sui meccanismi dell’oppressione in epoca di colonizzazione, dove un cacciatore di tigri uccide l’usuraio che tiene in pugno il villaggio oppresso dalla fame e ne porta trionfante la testa come un trofeo al governatore inglese esperto cacciatore.

LA GIUSTA violenza contro l’ingiustizia e la sopraffazione esplode tra le fila dei suoi personaggi, contadini affamati, disoccupati, immigrati senza dimora, mendicanti, donne violate. Parashuram (L’uomo con l’ascia, 1978), perlustrazione delle strade di Calcutta con i suoi abitanti sradicati dalle zone rurali, ha come protagonista un ragazzo di campagna che vive in un cimitero abbandonato, con un soprannome più grande di lui, che impara presto gli stratagemmi della sopravvivenza, destinato a un tragico destino poco eroico.
E arriva al cruciale e teorico «rifiuto del lavoro» in Oka Oori Katha (Gli emarginati, 1977), un passo più oltre la rivolta: padre e figlio vivono ai margini di un villaggio, troppo sopraffatti dalla vita per accettare ancora di essere sottomessi, miseri ma liberi, tagliati fuori dalla società perché «il lavoro arricchisce solo i ricchi». I suoi film non seguono schemi, negli altri film indiani contemporanei non si parla mai di fame, costringe a sentire la disperazione di paesi in cui non ci si può permettere il lusso di vivere e tanto meno di nascere e di morire. «Qualsiasi bastardo che lavora è un idiota» dice il protagonista «non fare in modo che il demone del lavoro entri dentro di te».

«ABBIAMO già una lunga tradizione di povertà, diceva, resa rispettabile e dignitosa soprattutto nella letteratura bengali. Con Calcutta 71 avevo mostrato il lato fisico della fame, il mutamento avvenuto nei poveri che da rassegnati sono diventati cinici, rabbiosi, violenti. Oka Oori Katha racconta di gente che ha lavorato duramente per morire di fame e allora preferisce lasciarsi morire di fame senza lavorare». E fino ad Affare di famiglia che era a Cannes nell’84 mette in scena un piccoli schiavo che lavora presso una famiglia borghese (se ne contavano oltre dieci milioni in India). Lo ricordiamo, a dispetto dei violenti intrecci dei suoi film, come un sottile e posato intellettuale, negli ultimi anni insegnante di cinema e membro della commissione per il finanziamento dei film. Con la sua nonchalance espresse il suo parere negativo sul finanziamento al film Gandhi di Attenborough.
Intanto avrebbe preferito che a farlo fosse stato un regista indiano e poi, diceva «non c’è il vero Gandhi nella sceneggiatura, sembrava solo adatto a titillare le belle coscienze. Inoltre sono in disaccordo con la sua filosofia politica della collaborazione tra classi, perché come marxista sono per la lotta di classe».

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