Mr. Gaga e l’ossessione della danza
Intervista Tomer Heymann racconta nel suo film - presentato al Festival dei Popoli - la storia del coreografo israeliano Ohad Naharin
Intervista Tomer Heymann racconta nel suo film - presentato al Festival dei Popoli - la storia del coreografo israeliano Ohad Naharin
Nel 1998 si tenevano a Gerusalemme le celebrazioni per il cinquantennale della nascita dello Stato di Israele: tra gli spettacoli in programma c’era Anaphasa della Batsheva Dance Company diretta dal coreografo e ballerino Ohad Naharin, che ritirò la sua creazione all’ultimo minuto dopo la richiesta del presidente di allora, Ezer Weizman, di censurare un passaggio in cui i ballerini restavano in mutande, facendogli indossare qualcosa di più decoroso che non offendesse la comunità ortodossa. Un gesto clamoroso, che metteva a nudo proprio nell’anno del giubileo una pesante contraddizione del laico Stato di Israele, e a cui seguirono forti proteste in favore della libertà di espressione. A quei tempi, Naharin era già una star, tornato in patria 8 anni prima per dirigere la compagnia di ballo nazionale dopo aver raggiunto il successo a New York. La sua storia è raccontata in Mr. Gaga del regista Tomer Heymann, passato al BFI London Festival, all’IDFA e che ha recentemente aperto il Festival dei Popoli di Firenze.
Mr Gaga alterna momenti dei suoi spettacoli alle testimonianze dei colleghi, ma soprattutto alle immagini d’archivio provenienti dalla collezione dell’artista, che nel corso del tempo ha registrato ore di filmati della sua vita privata e lavorativa. Una pratica che lo accomuna al regista del film, il cui lavoro precedente – The Queen Has No Crown – era interamente composto da filmini familiari in Super8 con cui metteva a nudo le sue esperienze più intime e dolorose, dal rapporto sofferto con l’amatissima madre a quello con l’altrettanto amata patria, in cui la sua omosessualità gli è costata delle dure discriminazioni. Come il sessantatreenne Naharin, Heymann (classe 1970) è nato «in un piccolo posto, lontano dal centro di Tel Aviv», e ancora come lui – «che da adolescente non pensava a diventare un ballerino» – ha scoperto tardi la sua vocazione per il cinema.
Cresciuto in un Kibbutz, Naharin attraversa la guerra dello Yom Kippur da intrattenitore» delle truppe, ma poi la madre lo iscrive a una scuola di ballo, e dopo poco viene reclutato dalla compagnia di Martha Graham. E così appena ventenne si ritrova a New York, dove la sua vocazione per la libertà lo porta ad abbandonare la scuola di ballo più prestigiosa dell’epoca per intraprendere la sua strada. Fonda così una compagnia, approfondendo al contempo il suo stile personale di danza (il gaga appunto). Ma per potersi realmente esprimere, dice, doveva tornare a casa, e così accetta di dirigere la Batsheva. L’ultimo lavoro di Naharin documentato da Heymann è del 2015 e si chiama proprio The Last Show, l’ultimo spettacolo. «Perché – spiega il ballerino – potrebbe esserlo davvero: questo governo mette in pericolo non solo il mio lavoro ma l’esistenza di tutti noi in questo paese che amo così tanto». Un paese ora «infestato da razzisti, fanatici e abusi di potere».
Come è nata l’idea di girare un film su «Mr. Gaga»?
Credo che il motivo stesso per cui sono diventato regista fosse la mia ossessione di poter fare un giorno un film su Naharin. Venticinque anni fa mio padre mi ha invitato a vedere una performance della Batsheva Dance Company, dicendomi che era arrivato un nuovo direttore che pensava mi sarebbe piaciuto. All’epoca non ero ancora consapevole di essere omosessuale, e gli ho risposto che la danza era una cosa noiosa per persone gay o vecchie. Lui mi ha detto che ero uno stupido, e mi ha obbligato ad andare. Non dimenticherò mai l’impatto emotivo che lo spettacolo ha avuto su di me, è stato quasi fisico. Per una settimana intera sono andato a vederlo ogni sera, e da allora non mi perdo un suo solo lavoro.
Quando è stato possibile trasformare l’ossessione in realtà?
Qualche tempo dopo ho iniziato a frequentare la scuola di cinema di Tel Aviv, ma per anni Ohad ha rifiutato di farmi entrare con la videocamera nella palestra dove si fanno le prove. Era ideologicamente contro l’idea di documentare il suo lavoro, di immortalare un momento: dice sempre che la danza è fondata sul suo stesso svanire. Poi finalmente l’ho convinto a far entrare me e la mia crew nel suo studio. Spesso ci cacciava dopo pochissimo, ma ero così entusiasta che alla fine ci ha dato il permesso di fare il film. Siamo anche riusciti a farci consegnare tutto il materiale d’archivio: centinaia di ore di registrazioni su nastro, mai visionate da nessuno. Ero sorpreso che così tanti momenti bellissimi, complicati e fragili della sua vita sia personale che artistica fossero stati registrati.
E questa è una similitudine tra di voi.
Forse Ohad ha deciso di fidarsi di me dopo aver visto ciò che ho fatto con filmati molto privati della mia vita e della mia famiglia in The Queen Has No Crown. Sono fermamente convinto che se vuoi raccontare la storia di qualcuno devi scavare nel tempo. E per molti anni Ohad non ha fatto altro che dirmi «non ti parlerò del passato: possiamo parlare del presente, ma in una manciata di secondi diventerà anch’esso passato. E dovrai fartelo bastare». Ma ovviamente non era abbastanza per me.
Vi accomuna anche un rapporto d’amore conflittuale con il vostro paese…
Mi ritrovo nella sua idea per cui non c’è contraddizione tra il piangere la scomparsa di qualcuno che ti è caro e ballare. E lo stesso vale per Israele: lo si può criticare aspramente in termini politici e al tempo stesso amarlo profondamente.
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