Mozart non può morire
Interviste Un incontro con lo scrittore Raphaël Jerusalmy al Festival di letteratura e cultura ebraica
Interviste Un incontro con lo scrittore Raphaël Jerusalmy al Festival di letteratura e cultura ebraica
Raphaël Jerusalmy è uno scrittore con un profilo davvero poco convenzionale: nato a Parigi da genitori di origine metà turca e metà russa (il padre unico scampato di un’intera famiglia finita ad Auschwitz) ha compiuto i suoi studi alla École Normale, poi ha trascorso vent’anni nei servizi segreti militari israeliani; ora vende libri antichi a Tel Aviv. Ha esordito nel romanzo a 58 anni con Salvare Mozart, pubblicato da E/O nella traduzione particolarmente nitida di Gaia Panfili. È un libro consacrato alla Shoah, ma dove non se ne parla mai. La storia è quella vertiginosa, narrata in forma di diario, della resistenza solitaria di Otto J. Steiner, «austriaco di confessione tisica» relegato in un sanatorio mentre in Europa si scatena l’incendio della Seconda Guerra Mondiale. È la storia di una presa di coscienza e di un «attentato musicale» pacifico che rappresenta la vendetta della cultura contro il potere, e la possibilità per un uomo solo di difendere la propria dignità agendo da esempio anche per gli altri; in questo senso «salvare Mozart» dall’aggressione culturale dei nazisti che si appropriano del Festspiele di Salisburgo significa per Otto salvare anche se stesso.
Intervistiamo Jerusalmy poco prima della sua partecipazione al Festival di Letteratura e Cultura Ebraica di Roma, che si chiude oggi con l’ultima delle sue giornate.
Quale spinta profonda l’ha condotta verso la scrittura e verso il suo primo romanzo?
Io sono un giovane scrittore (ride, ndr)! Mi sono congedato dall’esercito israeliano e, all’inizio, ho deciso di scrivere delle mie esperienze sotto le armi in Medio Oriente, perché ho avuto la fortuna di partecipare a una serie di trattative di pace, alcune segrete, altre meno. Ho lavorato prevalentemente con i palestinesi, i giordani e gli egiziani. Poi ho deciso di scrivere qualcosa di più universale, ma basato su aneddoti autentici.
Aprendo il libro, si potrebbe subito andare a cercare la data del 1° settembre 1939, con l’invasione della Polonia e il protagonista che sottovaluta la gravità della situazione. Poi c’è la nota sulla morte di Freud, dove lui commenta: «Aveva lasciato l’Austria in extremis, nel 1938. Ci ho pensato anch’io». L’impressione è che lei sia andato a misurarsi con un genere narrativo molto frequentato…
Ho dubitato molto di poter scrivere su simili temi proprio per questi motivi, ma poi ho pensato che avrei potuto introdurre un diverso angolo visuale, con pochissimi accorgimenti: il primo è il diario, perché non apporta alcuna distanza rispetto a ciò che sta accadendo giorno dopo giorno, e nessun giudizio storico; e poi c’è il fatto che è il diario di un austriaco dell’epoca, sono convinto che in quegli anni molti austriaci e tedeschi non avessero assolutamente capito cosa stava succedendo. Quindi è stato interessante assumere il loro punto di vista, e però condurlo a una reazione di qualche genere, in seguito.
Gli scrittori che la ispirano?
Per quanto mi riguarda, Albert Camus. Perché nei suoi libri si arriva sempre a un punto in cui verrà compiuto un gesto, un gesto significativo e risolutivo. C’è l’idea che comunque qualcosa dovrà essere fatto. Nello Straniero, ad esempio, c’è la storia, ma alla fine il protagonista compirà un gesto che sopravanzerà tutto.
Otto J. Steiner è chiaramente un melomane. E lei?
A dire il vero, non sono proprio un grande esperto di musica, ma per me è l’immagine della lotta della cultura contro il potere. Dovrebbe essere il simbolo migliore e più universale di questa lotta. Steiner, il mio protagonista, ha molti problemi, anche con il suo diario. La musica ha il vantaggio di non essere asservita alle parole, quindi lo libera dalla tirannia di Hitler, da quella della tubercolosi e anche da quella della lingua stessa. Allo stesso tempo, Otto la musica pian piano non la ascolta più, la sente solo nella sua testa; si libera quindi anche della tirannia del grammofono…
Chi è, oggi, uno scrittore ebreo?
Io non mi considero uno scrittore ebreo, e sono stato a lungo incerto se rendere ebreo il mio eroe. Con tutte le cose terribili che gli ho caricato addosso, farlo anche ebreo sarebbe stato davvero eccessivo. L’ho creato solo un po’ ebreo, come si mette un pizzico di pepe su un cibo, perché il suo essere ebreo rappresenta l’identità. Ma l’identità è una ricerca. Alcuni la vivono come una certezza: «io sono ebreo, io italiano…». Per altri, invece, è una ricerca. Oggi Israele sta cercando un’identità che non ha ancora trovato, ma questa ricerca è anche un punto di orientamento nel mezzo del caos, del conflitto. Anche se non sappiamo dove ci porterà. Spero che la ricerca dell’identità per Israele sia molto, molto lunga.
Otto Steiner è «una contraffazione. Non del tutto ebreo, non proprio ateo, mezzo austriaco, mezzo slesiano, non ancora morto, eppure già bandito dal mondo dei vivi». Un ebreo che nasconde la sua identità ebraica, ma alla fine la riscopre attraverso il dolore.
Ha uno strano rapporto con Dio, non crede in lui, ma gli parla continuamente. Il fatto che Steiner si ricordi di alcune leggi ebraiche rappresenta il modo in cui alcuni valori riemergono in tempi di crisi. Oggi mi stupisce il successo del mio libro in un’epoca in cui la gente è preoccupata dalla vita quotidiana e da come farà a mangiare l’indomani; ma anche gli studenti hanno ancora un interesse per la lotta per la dignità umana e i valori più alti. Suppongo che siano molto importanti se non vengono dimenticati pure in tempi difficili.
C’è una parola chiave nel libro: «borghese». L’ebreo colto sembra voler evitare di essere identificato con il borghese, mentre d’altra parte Hitler sembra incarnare il tipo più patetico e pericoloso di ideale borghese.
Borghese è un termine molto ambiguo, che oggi è spesso negativo. Temo che ogni borghese preferirebbe non esserlo. Perciò abbiamo bisogno di qualche stratagemma; uno è uscirne grazie alla cultura e alla creazione, eppure, come nel mio libro, devi essere certo che sia sovversiva, resistente, non riassorbita dal sistema. Ci sono molti altri modi di farlo: oggi stiamo lottando contro la crisi, ma al contempo contro la malattia pericolosa dell’essere borghesi in senso deteriore.
Il libro è intessuto dei temi della colpa e della complicità con i nazisti da parte di artisti e musicisti, e non solo. Ma lei cosa pensa di chi ha sottovalutato in quegli anni la gravità della persecuzione contro gli ebrei?
Non posso rimproverarli perché anche gli stessi ebrei non si resero conto sulle prime di cosa stava succedendo e rimasero intrappolati in Germania perché capirono troppo tardi. Come mostra l’esempio di questo mio personaggio austriaco, parecchi austriaci e tedeschi probabilmente all’inizio non capirono cosa stesse accadendo. Lui non è sconvolto dall’invasione della Polonia, solo da Mozart minacciato al Festspiele di Salisburgo. Oggi penso sia esattamente lo stesso, sappiamo ma non capiamo davvero cosa sta succedendo per esempio in Corea del Nord o in Tibet, e magari si tratta di cose al livello di Auschwitz. Saremo pure informati, eppure non riusciamo a saperne davvero molto.
«La storia è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi». James Joyce.
Sì, sono d’accordo, ma con la differenza che nella mia carriera, come cerco di far vedere nel mio libro, ci sono due storie, quella con la S maiuscola e quella minima, fatta di piccole storie personali, e spesso queste ultime contraddicono la storia con la S maiuscola o addirittura la superano. Ho lavorato nei negoziati di pace e anche nella cooperazione segreta con gli eserciti arabi, e di questo ho visto parecchi esempi. Naturalmente, honotato anche come alcuni militari che lavoravano sul campo contraddicevano i politici.
«Salvare Mozart» è ambientato in un luogo non ignoto ai grandi romanzi: un sanatorio. E sembra mimare con la sua scrittura il fiato corto di un malato.
È stato un rischio usare un’atmosfera troppo kafkiana; eppure, visto che non parlo mai dell’Olocausto, quell’ambientazione mi è stata necessaria per evocare comunque i campi di concentramento. Lo stile è molto «corto», asmatico, ma anche molto asciutto e pungente, perché il personaggio è una persona così; l’ho gioiosamente maltrattato, immaginandolo solo, malato e di carattere un po’ arido, ma anche con un sotterraneo e caustico black humour. Alla fine diventa anche generoso, perché prende coscienza, ma all’inizio francamente non è granché simpatico. Ho voluto che anche la scrittura fosse molto secca, senza alcuna parola di troppo. Le frasi le ho tagliate di continuo. Ogni volta che scrivevo cercavo di eliminare quante più parole mi fosse possibile. A volte quando cerco di spiegare questo procedimento mi capita di dire che il brano migliore del mio libro è: «25 dicembre 1939. Natale».
Otto Steiner dice che non sarà la scrittura ma l’azione a salvarlo. Per lei cos’è l’eroismo?
È un’ottima domanda, perché il senso nodale del libro sta qui. Non so se l’eroismo esista, ma so che ognuno è un eroe. Quasi sempre non ce ne rendiamo conto, ma tutti sono potenzialmente degli eroi. Non significa necessariamente agire: uno agisce solo se è nel posto giusto al momento giusto e quindi riesce a compiere un’azione eroica. Ma si tratta di un modo di porsi. A volte avere il giusto modo di porsi di fronte all’ingiustizia e all’oppressione è già un atto di eroismo. Il messaggio centrale del libro, per quanto riguarda l’attualità, è il pensiero che ci sono molti indignados, movimenti di massa in cui tutto si fa tramite i social network, si riescono a radunare migliaia di persone, e quindi si tende a dimenticare quel che può fare un solo individuo. Tendiamo a dimenticare il nostro potere immenso in quanto individui. Va benissimo usare tutti questi mezzi, ma non dobbiamo dimenticare ciò di cui siamo capaci come persone. E l’altra cosa da non dimenticare è che puoi farlo con i tuoi mezzi, non devi necessariamente essere associato a un partito o a un movimento.
Il libro è commovente, ma anche percorso da una sottile ironia. Si può ridere della storia?
Io cerco di far sì che la storia sorrida. L’ironia è un modo di distanziarci da un argomento molto doloroso. Penso che lo humour sia senza dubbio un’arma eccellente contro la storia.
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