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Boetti, movimento postale dello sdoppiarsi e del riconoscersi

Boetti, movimento postale dello sdoppiarsi e del riconoscersiAlighiero Boetti all’Accademia Nazionale di San Luca, Roma: "Opera postale (De bouche à oreille)", 1993, Roma, Fondazione Alighiero e Boetti, foto Giovanni De Angelis

A Roma, Accademia Nazionale di San Luca, "Alighiero e Boetti raddoppiare dimezzando", a cura di Marco Tirelli Meccanismi combinatori, riflessioni sul tempo, autoritratti: l’Alighiero Boetti più ascetico, che restringe, "ma" allarga, il suo campo d’azione mentale...

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024
Alighiero Boetti all’Accademia Nazionale di San Luca, Roma: “Gemelli”, 1968, collezione privata

«Oggi è il giorno di Marte, la guerra, l’aggressività, la violenza, ed il nono giorno del terzo mese. La guerra piace, piace da morire. Talvolta, anzi très souvent, la guerre est la seule adventure dans la vie». 9 marzo 1993, l’inizio dell’assedio di Srebrenica: questa pagina di diario, scritta a matita con la mano sinistra su un foglio timbrato in basso dal punzone «I VEDENTI», è inserita nella scacchiera dei cinquecentosei fogli e delle altrettante buste che formano Œuvre postale 1993. De Bouche à oreille, opera ultima che occupa un posto privilegiato nella mostra dedicata ad Alighiero Boetti dall’Accademia Nazionale di San Luca, nel trentennale della sua scomparsa. Nella progressione geometrica delle undici griglie che la compongono, nell’ordine che presiede alla collocazione di ogni francobollo, di ogni busta, di ogni foglio, il disordine riaffiora attraverso le parole di quel frammento di diario, in cui l’italiano e il francese scorrono l’uno nell’altro (e i refusi, che abbiamo lasciati, sono parte integrante di questa osmosi di lingue): «On peut passer d’une table de travail tranquille et régulier à la rue, tissue mimétique, kalasnikof, pugnale, bombe a mano, lignes noirs sur le visage et un pouvoir de vie et de mort dans tes mains».
Alighiero e Boetti raddoppiare dimezzando, fino al 15 febbraio. Curata da Marco Tirelli, che dell’Accademia è presidente, e da lui ideata in collaborazione con Caterina Boetti, che presiede la Fondazione Alighiero e Boetti, la mostra – realizzata con il coordinamento scientifico di Barbara Reggio – espone meccanismi combinatori, riflessioni sul tempo, autoritratti. Ad accoglierci è quello del 1993, riproduzione in bronzo in scala 1 a 1 della figura dell’artista intento a dirigere un getto d’acqua, che subito si trasforma in aureola di vapore, sulla sua testa surriscaldata – dal flusso dei pensieri, dall’affollarsi dei progetti, dall’inquietudine per la possibilità della fine. Incorniciato dalle volute dell’apparato architettonico e decorativo borrominiano e osservato dall’alto dallo sguardo di Medusa, l’Autoritratto riacquista la sua funzione di fontana, aderendo alla complessità di riferimenti alla natura e al mito che l’intervento di Borromini ha inscritto nel portale interno di Palazzo Carpegna. Al primo piano, l’allestimento si presenta come un dittico dai volets asimmetrici, con due sale complementari nel farci incontrare l’una una selezione rarefatta di opere iniziali (Gemelli, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969, Storia naturale della moltiplicazione), l’altra il montaggio progressivo e incalzante di De Bouche à oreille.
Il progetto espositivo parte da un momento preciso dell’attività dell’artista, la svolta riduzionista maturata nel corso del 1969. Le opere presentate nel gennaio del 1967 alla personale d’esordio alla galleria Christian Stein di Torino – lo ziggurat di cartone ondulato, la catasta di tubi di eternit, il telo mimetico – avevano contribuito a definire i tratti distintivi di una nuova situazione artistica, «povera», secondo la definizione divenuta canonica di Germano Celant, capace di fondare un «nuovo alfabeto per corpo e materia» per Tommaso Trini. Nell’autunno del 1968, in occasione della rassegna di Amalfi RA 3 – arte povera più azioni povere, Boetti aveva raccolto sotto l’insegna Shaman-Showman un gruppo di opere ancora caratterizzate da una forte presenza oggettuale, momento riassuntivo di due anni di lavoro, ma anche atto di commiato dalle attitudini poveriste. Nei mesi successivi il raggio di azione della sua ricerca si restringe drasticamente, isolandosi nella palestra circoscritta di un foglio quadrettato; la pratica del ricalcarne o annerirne i quadretti, che rinvia ad abitudini infantili o a esercizi scolastici svolti divagando col pensiero, apre all’artista la dimensione di una temporalità sospesa. Disegnare diventa una forma di meditazione, e la disciplina imposta dalla griglia del foglio consente a Boetti di rilanciare il suo lavoro in direzioni inattese. «È un “cimento” – chiarisce nel 1973 in dialogo con Mirella Bandini –. Cioè, avendo uno spazio sul quale agire, e puoi averlo anche minimo, quasi niente, vale a dire una matita e un pezzo di carta quadrettata, è necessario darsi una regola. A questo punto vi è il “cimento”: perché, se lo spazio è piccolo, le possibilità sono enormi; potresti farlo in centomila modi, uno diverso dall’altro, e pur in uno spazio così limitato viene fuori con quale sentimento e con quale cultura mentale l’hai fatto».
Si avvia così, nel corso del 1969, la nuova stagione di un ascetico «Boettinbiancoenero», come Ugo Nespolo aveva intitolato il cortometraggio girato l’anno precedente, durante la seconda personale dell’amico alla galleria Christian Stein di Torino. In Storia naturale della moltiplicazione, il numero dei quadratini anneriti cresce con ritmo esponenziale foglio dopo foglio; mentre l’equilibrio tra il bianco e il nero si sbilancia gradualmente a favore di quest’ultimo, sulle tavole si intersecano forme sempre più numerose e complesse, che, non potendo mai sovrapporsi, suggeriscono cartografie di tragitti interrotti o frammenti di macchine celibi.
Anche i lavori postali, la cui produzione ha inizio nel 1970, dipendono da un insieme di regole. Per ogni serie, il numero dei francobolli di valore e colore diversi usati per affrancare la prima busta determina quante permutazioni si possano ottenere cambiandone l’ordine, e di conseguenza il numero delle lettere che occorre affrancare e spedire per esaurire tutte le possibili combinazioni. Giunte a destinazione, le buste timbrate vengono nuovamente riunite e disposte in griglie regolari, per consentire di verificare sia le variazioni legate al meccanismo combinatorio, sia gli accidenti dettati dal caso – il sovrapporsi o il distanziarsi dei timbri, i chiaroscuri dei loro inchiostri, le iscrizioni, le macchie.
I viaggi di ritorno delle buste costituiscono il passaggio finale dei lavori postali, e lo stesso vale per i ricami fatti realizzare in Afghanistan a partire dai primi anni settanta. Lo sottolinea Marco Tirelli nel suo saggio in catalogo: «un’idea nata in una sera estiva nello studio di Santa Maria in Trastevere viaggiava come un seme nel vento e andava a germinare in una bottega in Afghanistan». Lì veniva sviluppata dagli artigiani locali, per poi affrontare l’ultimo atto del suo compiersi, il ritorno allo studio dell’artista.
L’Œuvre postale 1993 ha messo in atto questo doppio movimento con un’ampiezza di raggio mai sperimentata prima, toccando l’intera Francia, fino ai Territori d’oltremare, prima di ricomporsi al Magasin di Grenoble. È uno spartito in undici tempi, che si dilata dal primo nucleo – una busta, un francobollo, un foglio A4 – alla tappa conclusiva costituita da centoventuno buste affrancate con altrettanti francobolli e da centoventuno fogli. Come in un fregio classico, la geometria delle buste e dei francobolli si alterna a testi, disegni, ricalchi tracciati su fogli Extra strong. Angela Vettese, che ha seguito il cammino dell’opera fin dai passaggi iniziali, analizza, nel catalogo Electa costruito come un album, la pluralità di immagini, tonalità emotive e riferimenti iconografici che essa contiene.
Il principio che informa questa, come molte altre opere dell’artista, è l’incontro di ordine e disordine. La congiunzione che fa da ponte tra i due termini è la stessa che egli inserisce nel 1971 tra nome e cognome, firmandosi da allora «Alighiero e Boetti», dizione ripresa nel titolo della mostra all’Accademia Nazionale di San Luca e collegata al tema del doppio nel sottotitolo raddoppiare dimezzando. Nelle frasi ricamate, Boetti usa la «e» per unire e disgiungere, ma innanzitutto per vanificare il contrapporsi dei contrari – Ordine e disordine, Incontri e scontri, Il certo e l’incerto –, talvolta lasciando spazio al meccanismo complementare della doppia negazione – Non parto non resto.
L’espressione De bouche à oreille – equivalente francese di «passaparola» –, qui utilizzata perché così l’artista diffondeva tra i suoi collaboratori le regole che presiedevano alla realizzazione dell’opera, introduce un riferimento alla dimensione corporea. Il passaggio delle parole da bocca a orecchio è un esempio dell’«intercorporeità» di cui Merleau-Ponty parla in Segni (del 1967 la traduzione italiana): stringendo «la mano dell’altro ho l’evidenza del suo esserci», «lui e io siamo gli organi di un’unica intercorporeità». Anche il gesto del tenersi per mano che, nel fotomontaggio Gemelli del 1968, congiunge – come una «e» – le due immagini dell’artista, può forse essere osservato non solo come cardine di uno sdoppiamento della soggettività, ma come ricerca di una conferma del proprio esistere.

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