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Motown, la storia si fa musical

Motown, la storia si fa musicalUna scena di Motown, the Musical – foto di Alastair Muir

Palcoscenico Un musical con un cast di 50 artisti, ripercorre le vicende dell’etichetta discografica indipendente di Detroit. La prima grande azienda nera ideata e realizzata nel 1958 dal genio del «piccolo» Berry Gordy

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 2 aprile 2017

Un logo luminoso campeggia sul palcoscenico. Tre strisce dorate e intrecciate a formare una corposa lettera M, il simbolo della Motown Records, una casa discografica indipendente, la contrazione slang di Motor Town, il soprannome di Detroit. La prima grande azienda nera, ideata e realizzata nel 1958 da un vivace piccoletto afroamericano col bernoccolo degli affari, Berry Gordy, un ex pugile poi operaio della fabbrica d’automobili Lincoln che scriveva brani melodici nel tempo libero e divenne miliardario in pochi anni, lanciando e scoprendo una quantità di giovani talenti. La sua prima canzone s’intitolava To be loved (portata al successo da Jackie Wilson) e così pure la sua autobiografia, fonte d’ispirazione di Motown, the musical, una produzione costosa e redditizia, che ha debuttato a Broadway nel 2013 (dove è tuttora in cartellone) e l’anno scorso è arrivata pure con un altro cast di 50 persone (tra cui Cedric Neal e Lucy St Louis nei ruoli principali con la regia di Charles Randolph-Wright e un fenomenale Eshan Gopal nella parte del bambino Michael Jackson) e un’orchestra di 18 elementi, allo Shaftesbury Theatre di Londra, già prenotata fino a febbraio 2018.

Partenza a spron battuto con una battaglia di strada, tra i Four Tops e i Temptations. Da un lato la lezione gospel con armonie avvolgenti, un sound semplice e diretto, del quartetto vocale con Levi Stubbs in primo piano in I Can’t Help Myself, disco del 1965 salito in vetta alla hit parade. Dall’altro le ballate d’amore come My Girl, uno dei 37 brani della band che sfondarono la Top Ten. Il gruppo del baritono Otis Williams si presenta con abito dorato con sottile bordino della giacca lilla, camicia bianca con ruche centrale. Entrambi danzano e si scambiano di posto, mimano uno scontro a suon di rime e chiudono il loro siparietto cantando all’unisono. L’espediente narrativo sono le celebrazioni per i 25 anni della Motown (passata da Detroit a Los Angeles nel 1971 e venduta alla Mca nel 1988) che si tennero a Pasadena nel 1983, con tutti gli artisti, passati per l’etichetta, tornati ad esibirsi in un solo grande show.

Uno zibaldone di due ore e mezza con 57 canzoni, balletti frenetici e lenti sensuali, coreografie travolgenti con ambientazioni curatissime, abiti e costumi luccicanti, scenette teatrali e tante sorprese (il ruolo centrale della radio dal discorso del reverendo Martin Luther King alla guerra in Vietnam e l’assassinio di Kennedy) in una colonna sonora di un’epoca movimentata tra conquiste sociali, lotte per i diritti civili, battaglie contro il razzismo e sogno di una vera eguaglianza. La sua fu la prima scintilla di una rivoluzione musicale che avrebbe cambiato profondamente l’industria discografica. Gordy riuscì a convincere la sua famiglia a prestargli 800 dollari, coi quali comprò una casetta bianca al 2648 di West Grand Boulevard, il quartier generale della sua attività, a Detroit. Nasce Hitsville, «il posto dove un ragazzo qualunque può entrare da una porta come sconosciuto e uscire dall’altra come un bravo performer», una fabbrica di canzoni con autori, musicisti e arrangiatori che venivano pagati a settimana, con ritmi di lavoro molto intensi ma anche la fortuna di avere alcuni autori eccellenti come Lamont Dozier, Eddie e Brian Holland, Norman Whitfield.

Tuttavia, all’inizio degli anni ’60, l’industria musicale americana era profondamente divisa per generi e profondamente razzista. Così il jazz, il rhythm and blues, il soul e tutta la black music – i cosidetti race records- era indirizzata al pubblico afroamericano e mandata in onda solo dalle stazioni radio nere. L’intuizione di Gordy, inizialmente un appassionato di jazz che aveva collezionato scarse vendite, fu quella di mettere assieme gli stilemi del nascente rock’n’roll con le melodie gospel, blues, soul puntando a prodotti molto accattivanti, tra coretti e ritornelli, e tecnicamente perfetti, propagandati come «il suono dell’America giovane». In questo modo la black music venne accettata universalmente anche per la piacevole sequenza di successi e di giovani cantanti e gruppi interpreti di quel sound (una parte divertente del musical è il pellegrinaggio di Gordy tra i deejay delle catene radiofoniche per convincerli a trasmettere i suoi dischi, segno di tenacia impressionante). Il suo primo hit fu Way Over There di William «Smokey» Robinson, un teenager di grandi qualità che si esibiva agli angoli delle strade. Sotto la guida di Berry, Robinson e il suo gruppo, The Miracles, divennero una vera attrazione (col brano You Really Got a Hold on Me), richiamando altri gruppi afroamericani verso la piccola label discografica. In tre anni, la Motown annoverava un pugno di artisti di successo, inclusi Mary Wells (interprete di My Guy nel 1964) , the Marvelettes (quelle che imbroccano subito il primo posto con Please Mr.Postman, nel 1961, una ragazza che aspetta una lettera dal suo ragazzo al fronte) Marvin Gaye, the Contours, the Prime (che divennero poi The Temptations), e un ragazzo cieco di 10 anni che si chiamava Stevie Morris, più noto come Stevie Wonder, che presto familiarizzò con lo studio di registrazione, tanto da suonare più strumenti.

Il capolavoro di Gordy sono le Supremes, un trio vocale introdotto da un medley di successi You Can’t Hurry Love, You Keep Me Hangin’ On, Love Is Here and Now You’re Gone e Stop!In the name of love dove scatta il rituale da concerto, con le attrici che si fermano nelle strofe per far cantare le parole al pubblico già molto surriscaldato, tanto da girare il microfono verso la platea. Tra il 1964 e il 1967 dieci brani del trio composto da Diana Ross, Mary Wilson e Florence Ballard – bombe sensuali tra ingombranti parrucche, abitini a balze e toni carezzevoli – raggiunsero la vetta delle classifiche di vendita sotto la ferrea gestione di Gordy che mischiava affari commerciali (le obbligò a un rigido codice di comportamento per promuovere un’immagine vincente del gruppo) e affari di cuore (tre mogli, otto figli da cinque donne diverse, compresa Rhonda, nata nella lunga relazione con Diana Ross, caratterizzata anche dai due film prodotti, La signora canta i blues e Mahogany).

Gordy rimase  fortemente colpito dagli scontri razziali di Detroit nel luglio 1967, simboleggiati dall’album What’s Going On di Marvin Gaye, mirato a risvegliare le coscienze e portare avanti la battaglia per i diritti civili. Proprio Diana Ross, forte di un impatto scenico coinvolgente, tenterà la carriera solista nel 1970 inanellando successi ma porterà da Gordy i suoi eredi, un quintetto di fratelli, scoperto in un locale a Gary, i Jackson 5, con un piccolo Michael Jackson quasi un’imitazione aggiornata di James Brown, con tuffi, passi e piroette a ritmo continuo ed una voce deliziosa che metterà d’accordo adolescenti di ogni razza, colore e religione con I Want You Back del 1969. In questo modo il musical si rivela un autentico jukebox popolare, un viaggio nel tempo tra personaggi, storie e brani mandati a memoria che risvegliano i ricordi personali di ognuno. E portano all’irresistibile finale di Ain’t No Mountain High Enough e Dancing in the streets, col pubblico in piedi a ballare tra le fila delle poltrone, quasi una dichiarazioni d’intenti per quell’operaio che scriveva canzoni e cambiò per sempre la storia della musica e della cultura americana.

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