Cultura

Morti inutili per l’uomo senza qualità

Morti inutili per l’uomo senza qualitàFilobus Alfa Romeo 1000 (Aerfer 8026)

Noir «La vita e la morte di Perzechella» di Giovanni Iozzoli per le Edizioni Artestampa

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 23 agosto 2016

Alfonso Amitrano vive a Parma. È uno stimato professionista, fa lo psicoterapeuta. Ai suoi pazienti comunica affidabilità, competenza, sicurezza. Ma Alfonso Amitrano ha vissuto una vita precedente, segnata da una colpa incoffessabile. Lui una volta era Alfonso o’ studente e viveva a Napoli. Fuoricorso alla facoltà di medicina, trascinava i suoi giorni nei pressi dell’Università. Aveva fatto parte del movimento, ma senza farsene coinvolgere molto. Aveva militato in un piccolo gruppo marxista-leninista, poi si era avvicinato ai disoccupati organizzati, ma senza vera partecipazione, rimanendone sempre in qualche modo ai margini. Sapeva di essere ritenuto un tipo inaffidabile, e sapeva che questo era vero. Trascinava la sua vita senza ambizioni di alcun genere e senza prospettive.

Un giorno la sua vita precedente irrompe nel suo presente. Avviene per caso: da un libro che sta sfogliando esce un foglietto strappato a metà, una breve poesiola che lui stesso aveva scritto nel 1987, oltre vent’anni prima. Da questo momento il suo passato ritorna e tutta la sua vita attuale, come quella di altre persone in qualche modo coinvolte, non potrà mai più essere la stessa.

Così inizia il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, intitolato La vita e la morte di Perzechella e uscito di recente per le Edizioni Artestampa (pp. 412, euro 17). Si tratta di un noir, ma di un noir a dir poco inconsueto. Innanzi tutto sfugge completamente alle regole classiche e all’impianto strettamente – o almeno apparentemente – razionalista del giallo. Qui entrano in gioco strane coincidenze, cambiamenti inattesi, sensi di colpa e deliri di onnipotenza per far andare avanti la trama. Ci sono poi inserti comici legati alla strana coppia di investigatori, un vecchio avvocato e un ispettore in pensione, tenaci ma assolutamente incompetenti nel tentare di risolvere un omicidio avvenuto tanto tempo prima ed archiviato all’epoca come uno dei tanti delitti di camorra che insanguinavano la città. Inoltre il lettore assiste per così dire in diretta al delitto, sa da subito, quindi, chi sia l’assassino, anche se potrebbe non essere proprio andata come sembra.

La vittima, inutile dirlo, è la Perzechella del titolo, giovane venditrice di sigarette di contrabbando che vive un’intensa, drammatica inusuale storia d’amore con Alfonso. Siamo nella Napoli degli anni Ottanta, gli anni di merda, come li ha definiti Nanni Balestrini in una sua poesia. E Iozzoli descrive perfettamente questa Napoli del post-terremoto, quell’aria di sconfitta seguita alle ultime rivolte delle plebe, l’imporsi sempre più stringente della camorra, il degrado, l’impoverimento dei ceti piccolo-borghesi. Ma quello che più colpisce nel romanzo è la matrice per così dire dostoevskjiana che lo caratterizza.

Lo scavo psicologico all’interno del personaggio principale, ma non solo, che porta ad indagare i moventi profondi, e spesso completamente irrazionali, alla base delle azioni e delle scelte compiute. Uno scavo che, oltre tutto, non si ferma a livello del singolo ma va investire la società nel suo complesso. Sembra quasi che risuonino all’interno del testo tematiche ed argomenti affrontati da Franco Berardi Bifo in tanti e anche recenti suoi scritti. Così, ad esempio, il dottor Amitrano a un certo punto si trova a dover ammettere che «avanzava un nuovo e strano paziente, totalmente vuoto, assente di sé, un Nome e una biografia posticcia (…) una personalità apparentemente senza inconscio (…) quando andavi a cercare l’Uomo non trovavi più nulla (…)Le sofferenze, in questo nuovo paziente c’erano ancora tutte e tutte, volendo, si potevano richiamare agli schemi conosciuti (…) ma era il soggetto che faceva esperienza di questa sofferenza, che non si trovava più (…)Al posto dell’uomo e della donna concreti, si scorgeva come una specie di Individuo Finale, un fascio di emotività schiacciato in un presente asfittico, un complesso di impulsi indotti, standardizzati, un aggregato di ferite non guaribili, perché non c’era più nessuno da guarire». Un discorso, questo, che non rimane a livello teorico ma che si incarna soprattutto in uno dei personaggi del romanzo. Si tratta di un paziente di Amitrano, l’«Uomo delle Meduse», trasparente e normale, che aveva i giusti gusti, seguiva i giusti stili di vita, faceva le giuste cose.

Insomma «la persona più normale del mondo», «perfetto per il mondo» in cui vive. Ha solo un problema, senza nessuna ragione o causa fisiologica è preso da attacchi di vomito. In realtà, come gli dirà Alfonso, è la sua vita, tutta intera, per come la conduce a farlo vomitare, perché: «Il vomito non mente… due milioni di anni fa i tuoi antenati vomitavano le piante velenose e le distinguevano così da quelle nutrienti o medicinali. È così che si è formato il sapere umano… ingerendo ed espellendo… è tutto naturale. Oggi c’è qualcosa dentro di te (…) qualcosa di antico, che ti ama, che ti protegge, e che ti fa rigettare la tua vita. Qualcosa che rifiuta il brutto, il banale, qualcosa che ti allarma: attento, attento, la pianta è velenosa, espellila».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento