Giovan Battista Moroni, “Ritratto di donna con ventaglio”, circa 1576-’79, Amsterdam, Rijksmuseum

Dentro le sale delle mostre capita spesso di ragionare non solo sull’esposizione in sé, ma sul senso del nostro lavoro di storici dell’arte che è – semplifico – affinare strumenti utili a decodificare il passato. La fitta trama di permanenze che la storia ci ha lasciato è fatta di documenti (figurativi, architettonici, letterari eccetera) spesso reticenti, difficili da interpretare perché nati in contesti animati da una cultura diversa dalla nostra. Li possiamo comprendere meglio solo se messi in serie da uno sguardo educato. Succede alla mostra Moroni (1521-1580) Il ritratto del suo tempo (a cura di Simone Facchinetti e Arturo Galansino, alle Gallerie d’Italia di Milano fino al 1° aprile), dove è l’occhio dello storico dell’arte a disciplinare ogni scelta ricomponendo, con le opere di Moroni e dei suoi contemporanei, un intero contesto.
L’esposizione milanese è la terza dedicata a Giovan Battista Moroni dai due curatori, dopo quelle, più contenute, della Royal Academy di Londra, 2014, e della Frick Collection di New York, 2019.
La carriera del pittore si segue dagli inizi, con la formazione avvenuta nella bottega del bresciano Moretto. Vasari ricordava quest’ultimo per la «diligenza» nell’«imitare le cose naturali»: stoffe, metalli, teste «vivissime» e inserti di realtà «che il Caravaggio giovine quasi potrebbe sottosegnare» (qui è Roberto Longhi che parla).
L’adolescenza di Moroni finisce quando Moretto termina la pala per Sant’Andrea a Bergamo, 1536-’37: la pittura rende i tessuti, il metallo e persino le bucce dei frutti palpabili alla vista. È una proiezione perentoria, radicale, della realtà sulla tela. Prevede lunghe osservazioni e l’immedesimazione del riguardante che ripercorre nella propria memoria la sensazione tattile che dà il velluto tra le dita, il ferro freddo dell’armatura che scorre sotto i polpastrelli, l’odore di una pera… Moroni assorbe tutto questo e, come si usava, trae diversi disegni dai dipinti del proprio maestro che gli saranno utili per tutta la vita. In mostra ci sono alcuni fogli che un tempo componevano un taccuino. Sono disegni finitissimi in cui è la biacca, stesa in pennellate sottili, a modellare le forme su un fondo ceruleo.
Nella sezione successiva si scopre di più, e ci si interroga di nuovo: Moroni non copia solamente dal proprio insegnante, ma si appropria di alcune invenzioni di pittori delle generazioni precedenti. Le traduce nella propria lingua, assoggettando le immagini a un uso diverso. Nella sua versione i toni brillanti e preziosi di una Sacra famiglia di Solario s’abbassano, lo sfondo è cambiato. Perché? È mutato il gusto, ma anche l’aria intorno ai quadri è diversa, è più rarefatta, quasi soffocante.
Un processo simile avviene con i ritratti. Moroni studia quadri di Lotto e Moretto di dieci o vent’anni prima. Nei ritratti Lotto cerca di cogliere momenti di intimità, predisponendo pose che sembrano nascere grazie al rapporto tra il ritrattato e l’artista: i gesti, tutt’altro che magniloquenti, possono arpeggiare in una languida leggerezza, come nel Giovane delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, 1530 circa. In realtà, quanto studio e quanta finzione per fare sembrare tutto naturale, e quanta cura nell’approfondire il carattere facendo, con il pennello, un carotaggio dell’anima.
Moroni è meno inquieto, ma i suoi ritratti giovanili, come il Savelli (dal Calouste Gulbenkian Museum di Lisbona), probabilmente dipinto durante la parentesi trentina, riprendono gli stessi principi, giocando su ambientazioni e impaginazioni «parlanti». Negli anni successivi lavora invece più di sintesi, e qui è importante il magistero di Moretto. Le pose diventano più formali, le ambientazioni più sommarie e quasi intercambiabili come gli sfondi nei vecchi studi fotografici.
Mentre si diffonde nelle corti europee uno state portrait che traspone la fisionomia in una dimensione atemporale, sottolineando gli attributi dalla casta sociale, Moroni resta fedele ai propri modelli, e continua a ritrarre «al naturale»: il podestà di Bergamo Antonio Novagero posa disinvolto nella sua divisa ufficiale; il suo collega Jacopo Foscarini una decina d’anni dopo sembra ancora più rilassato. Non chiedono di sembrare più alti o più saggi; la gravità del loro ruolo passa solamente dalle vesti e dagli oggetti. Entrambi sono in piedi, ma si appoggiano per alleviare la stanchezza delle molte ore di posa che Moroni dovette pretendere, registrando il presente per via di pennellate, in scala 1:1, senza intermediazioni di schizzi e disegni.
Ritratti «al naturale» come questi erano ammissibili per i podestà di provincia, ed erano entrati nell’uso di classi sociali emergenti: «sino i sarti e i beccai appaiano là vivi in pittura», lamentava Pietro Aretino. Dogi, papi o imperatori, abituali committenti di Tiziano, avevano invece ritratti celebrativi che fissavano un’immagine ufficiale da diffondersi in copie seriali. Nulla a che vedere con la concretezza – «vivi in pittura», appunto – che emerge dai volti di Moroni; la sua si direbbe una posizione etica.
Dopo il matrimonio, avvenuto alla fine del 1556, l’artista torna definitivamente nel proprio paese natale, Albino, nella bassa Val Seriana, ai piedi delle Alpi Orobie. Diventa il testimone di una certa società bergamasca: nei ritratti replica le pose e le ambientazioni sono perlopiù poco caratterizzate, perché il fulcro è l’individuo con le proprie particolarità fisiche, con il proprio carattere, i vestiti più o meno alla moda, i gioielli, le armi, gli oggetti d’affezione. Ognuno ha una propria dignità, sia esso un nobile delle valli o un sarto di provincia o una poetessa o un militare. Dietro i volti si celano le storie, i legami e pesino i tic di questi personaggi la cui identità è in molti casi riconosciuta o confermata grazie alle ricerche per il recente catalogo ragionato. In mostra questa rete relazionale tra i ritrattati si squaderna da una parete all’altra, tra intrecci famigliari e intellettuali, in una pletora umana che non credo abbia, almeno per il Cinquecento, nessun altro confronto.
Ci sono rapporti umani ovviamente anche a monte delle commissioni pubbliche, spesso allogate da comunità parrocchiali o confraternite. Dopo la chiusura del Concilio di Trento il clima cambia, soprattutto nelle parrocchie lombarde toccate dalle visite apostoliche di Carlo Borromeo. L’arcivescovo e i suoi sodali danno indicazioni precise: si devono riorganizzare gli interni delle chiese, spesso scalcagnati e insani, aggiustare arredi e rinnovare le vecchie immagini devozionali con altre più conformi alla nuova sensibilità controriformata. I santi devono mostrare i loro attributi, tutto dev’essere chiaro, i gesti devono annunciare o esplicitare messaggi. Così capita di ritrovare, tra la produzione di Moroni degli anni sessanta, un polittico con i santi isolati come non si usava da decenni, o vedere riutilizzate – e qui i confronti spiegano molto – composizioni inventate da Moretto trent’anni prima. In questo sforzo di reinvenzione le figure che inevitabilmente non possono aggrapparsi alla realtà tangibile sono svuotate, dimagrite, congelate nell’immobilità. Diventano delle visioni composte da colore più che da carni e tessuti.
Quando la realtà entra di nuovo in campo, come nella bellissima Ultima cena di Romano di Lombardia, 1566-’69, l’ordine interpretativo si deve ribaltare: Cristo e gli apostoli sono come un sogno che prende vita per un attimo davanti agli occhi dell’unico personaggio reale riprodotto nel quadro, verosimilmente il parroco Lattanzio da Lallio. L’ampolla di vino e la stola che tiene in mano sono oggetti veri, magari usati da Lattanzio durante la messa, ma insieme altamente simbolici: richiamano la Cena, rimandano alla Passione. È la verità concreta delle cose che apre le porte dell’immaginazione.
Da qui si entra in una delle sale più interessanti dell’esposizione, introdotta dal Sacerdote in preghiera e il profeta David, un vertice di Moretto che in pochi hanno visto a Kinnaird Castle, in Scozia. Nei dipinti, perlopiù per la devozione privata, la pittura esplicita il meccanismo dell’orazione mentale, cioè quel tipo di preghiera meditativa che spingeva a immaginare il soggetto della venerazione, per una partecipazione che potremmo dire immersiva alla storia sacra. Moroni separa la sua zona prediletta, quella del reale, da quella della visione con balaustre, ruderi o quinte architettoniche. Al di qua il fedele, al di là, magari sulla riva del torrente dietro casa, il battesimo di Cristo, come una nota a margine dell’esistenza. Come un incidente nella verità del quotidiano.