«Una puttana che scialacqua nei banchetti i beni degli assenti». La Penelope dell’Alessandra di Licofrone, raccontata da Cassandra, è molto diversa dalla Penelope che siamo abituati a pensare. Così come diverso, in un certo modo, è l’Ulisse raccontato da Lorenzo Braccesi nel suo Ulisse Rifrangenze poetiche («L’Erma» di Bretschneider, pp. 213, s.i.p.), in cui l’autore non parla solo dell’Ulisse di Omero, o di quello di Dante, che ispira più o meno ogni riscrittura successiva.

Parla anche di qualche Ulisse meno immediato, come quello, appunto, di Licofrone: che «è il responsabile della distruzione della propria patria», non si consola possedendo Circe o sognando Nausicaa e si intrattiene solo «per poco tempo» con Calipso. Parla dei figli di Ulisse e Circe, Agrio e Latino, che per Esiodo regnano su tutti i Tirreni; della morte e sepoltura dell’eroe in Etruria, di cui raccontano, oltre a Licofrone, anche Aristotele e Plutarco; della fascinosa leggenda che vorrebbe Ulisse, «il Nano che vagando vide ogni anfratto della terra e ogni recesso del mare» – dove Nano deve essere inteso come «pelasgico», ed equivale tanto a «pre greco» quanto a «pre etrusco» –, compagno di Enea nella fondazione di Roma; del «non bello», ma «di facile parola» Ulisse ovidiano, «che dà alle dee del mare i tormenti dell’amore».

L’elegante, mondana reazione della Calipso di Ovidio all’addio del suo amato è così diversa dall’ansia tragica che travolge altri Ulisse: come quello appunto di Dante, che non conosceva Omero e le cui fonti, oltre alla Navigazione di San Brandano, sono Plinio, Cicerone e il molto meno noto Solino, che proietta Ulisse in un «altro mondo» (alter orbis) a cui l’eroe sembra sempre costretto ad aspirare. Come fa quello vittoriano di Tennyson, che, anche se vecchio e «sposato ad una donna vecchia», non può smettere di viaggiare e vuole «bere ogni goccia di vita»: perché «respirare non è vivere», e, anche se «la morte chiude tutto», sa che «qualcosa può ancora essere fatto».

Mentre la «luce comincia a scintillare tra le rocce» e il mare «geme attorno con molte voci», Ulisse sa che lui e i compagni potrebbero essere inghiottiti dagli abissi, ma sa anche che il suo «scopo è navigare oltre il tramonto e i bagni di tutte le stelle occidentali, finché io muoia»: vuole illudersi che non sia mai troppo tardi per «cercare un mondo più nuovo», anche a costo di non trovarlo.

Un po’ come un altro Ulisse influenzato da Dante, quello di Kazantzakis, «un eroe dall’indole ascetica e utopistica pervasa da sentimenti ferocemente antiborghesi» – lo descrive bene Braccesi – che rispecchia la complessa anima del suo autore: che negava con forza Dio, ma sui cui «pesava l’intangibile, ma essenziale», come ricordava Banine. E non a caso, il suo Ulisse sa che la «virtù della sua anima è sempre stato il viaggio», e, nonostante «la santa infedeltà», non può non ammettere che «l’anima è molto più saporita della carne».

Molto meno noto è l’Ulisse di Arturo Graf, che nell’Ultimo viaggio somiglia un po’ a Cristoforo Colombo, un po’ all’Ulisse dantesco, dato che non arriverà mai alla sua America, perché dalla terra appena intravista si aprirà una voragine che «roteando e spumeggiando inghiotte carene e vite nella eterna notte». E L’Ultimo viaggio è anche il titolo di uno dei Poemi Conviviali di Pascoli, che disegna uno dei più tragici e meravigliosi Ulisse della storia, a cui Braccesi ritorna molte volte nel libro: l’Ulisse pascoliano ricompie à rebours il suo viaggio, e muore tra le braccia della «Nasconditrice Solitaria», Calipso, che ne avvolge il corpo «nella nube dei suoi capelli», e con un disperato, disilluso ululato esplicita il timore, forse non troppo segreto, di ogni essere umano: «non esser mai! Non essere mai! Più nulla, ma meno morte, che non esser più».