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Mordechai Vanunu, una storia che non vuole cadere nell’oblio

Mordechai Vanunu, una storia che non vuole cadere nell’obliol'ex tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu

Nucleare Dieci anni fa veniva scarcerato il tecnico nucleare che rivelò al mondo la produzione segreta di bombe atomiche da parte di Israele. Oggi pochi ricordano un eccezionale atto di coraggio compiuto in nome della verità e della non proliferazione in Medio Oriente

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 aprile 2014
Michele GiorgioGERUSALEMME

Quando Mordechai Vanunu il 21 aprile 2004 lasciò dopo 18 anni la prigione di Shiqma (Ashqelon), 11 dei quali passati in completo isolamento, trovò ad accoglierlo un gruppetto di sostenitori israeliani. «Ghibor, Ghibor» (eroe), gli urlavano. Per il resto di Israele invece Vanunu era soltanto un traditore, colpevole di avere rivelato nel 1986 al settimanale britannico Sunday Times i particolari della produzione militare nucleare nella centrale atomica di Dimona (Neghev). A lui del giudizio della maggioranza degli israeliani non importava più nulla da anni. Camicia bianca, cravatta, valigetta, le dita che facevano il segno della vittoria, Vanunu cullava il progetto di diventare il simbolo della lotta contro l’atomica israeliana e della non proliferazione in Medio Oriente. «Sono orgoglioso di ciò che ho fatto», proclamò ad alta voce. Prima salire a bordo dell’auto che lo avrebbe portato a Gerusalemme, Vanunu salutò con calore l’attrice britannica Susannah York, attivista no-nuke. «Mordechai ha seguito la sua coscienza – disse York al manifesto – ha compreso che doveva rivelare che nel suo paese si producono in segreto ordigni atomici. Tutti i paesi, quelli arabi e Israele, devono rinunciare alle armi di distruzione di massa. Sono qui a salutare il suo ritorno alla vita».

Sono passati dieci anni è Mordechai Vanunu non è mai tornato alla vita. Non è ancora riuscito ad ottenere il permesso per lasciare il Paese. Il tecnico nucleare si aggira come un fantasma per le strade della zona araba (est) di Gerusalemme dove vive dal giorno della sua scarcerazione per affermare il rifiuto di tornare in Israele. Raramente capita di vederlo in compagnia di qualcuno. Le restrizioni gli impediscono di rilasciare interviste alla stampa estera: le disposizioni prevedono l’espulsione immediata e permanente dal paese dei giornalisti stranieri che proveranno ad intervistarlo. Ma oggi sono ben pochi i reporter che hanno ancora interesse verso l’uomo che con coraggio, pagando con 18 anni di carcere duro, rivelò nel 1986 la produzione di ordigni atomici da parte di Israele in violazione della legalità internazionale. E con passare degli anni l’ex tecnico della centrale di Dimona nelle strade, tra la folla, diventa sempre più una persona qualunque, uno sconosciuto, pur avendo scritto un capitolo della storia recente del Medio Oriente. Se le autorità israeliane intendevano farlo cadere nell’oblio, poco alla volta stanno raggiungendo l’obiettivo.

Si tratta di una vicenda umana e politica eccezionale che riguarda anche l’Italia. Pochi lo ricordano ma Vanunu fu rapito dal Mossad a Roma e riportato in Israele dove è stato processato e condannato per “tradimento”. L’Italia, tranne una timida richiesta di spiegazioni presentata a Israele da Bettino Craxi, ha taciuto per quasi 30 anni. Vanunu, ebreo di origine marocchina, prima di formarsi una coscienza politica aveva svolto con diligenza il suo lavoro di tecnico nucleare nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per produrre energia elettrica ma che l’attuale capo dello stato israeliano Shimon Peres, con l’aiuto del padre dell’atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona quando venne trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove, secondo i dati raccolti dal tecnico nucleare, sono (o erano) prodotti annualmente una quarantina di chilogrammi di plutonio. Quella e altre scoperte, documentate con fotografie, lo convinsero dell’importanza di rivelare al mondo la produzione di ordigni atomici in Israele. Le sue domande ai diretti superiori da quel momento in poi divennero più incalzanti, i suoi dubbi generavano imbarazzo tra i colleghi. Nel 1985 Vanunu fu costretto a dimettersi per «instabilità psichica» e partì per l’Australia dove poco dopo si sarebbe convertito al Cristianesimo. E proprio dall’Australia per la prima volta si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il quotidiano britannico gli firmò un assegno da 300 mila dollari – mai incassato – ma esitò fino al 5 ottobre a pubblicare il suo racconto. Vanunu, come nel più classico dei film di James Bond, cadde in una trappola preparata da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad, per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra ma a Roma dove il tecnico fu attirato da Cindy per un “weekend romantico”.

Fu riportato in Israele con una nave il 7 ottobre. Vanunu riapparve solo per qualche attimo a Gerusalemme, durante il processo, quando con uno stratagemma – scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula – fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato là rapito. E dove ha ancora desiderio di tornare per fare domande a coloro che in questi 28 anni hanno fatto finta di non sapere nulla.

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