Morante tra apici e depressione: una biografia segnata dal trauma
L’ennesima biografia su Elsa Morante potrebbe far storcere il naso a più di uno studioso. E in effetti la vita di questa scrittrice, tra le più importanti del nostro Novecento letterario, è alquanto inflazionata, soprattutto in tempi recenti. Ricordo, a ritroso, il caso del romanzo biografico firmato da Angela Bubba, Elsa (Ponte alle Grazie, 2022), nel quale Morante diviene personaggio-protagonista che dice io e dietro al cui mito, come ha avuto modo di scrivere Massimo Onofri sulle pagine di Avvenire, Bubba «imbozzola se stessa in quanto donna e scrittrice»; gli eccellenti e documentatissimi scritti di Renzo Paris che, dalla specola di testimone, racconta il ménage à trois che legava Alberto Moravia agli opposti Elsa e Pier Paolo Pasolini.
La traduzione infine della biografia francese dello scrittore René de Ceccatty che, in Elsa Morante. Una vita per la letteratura (Neri Pozza, 2018), indugia, dallo spioncino di casa, sui suoi amori impossibili, puntualmente per uomini che non avrebbero mai potuto ricambiarla, come quello tragico per il giovane pittore newyorkese morto suicida, Bill Morrow, o per Luchino Visconti.
In fondo che cosa è una biografia se non un modo per parlare anche di sé, non certo solo per un vezzo narcisistico, ma per mettersi in contatto con un’altra vita e conoscerla, capirla? È il caso, questo, dell’ultima biografia morantiana, scritta da una ex normalista di Pisa, ora dedita all’insegnamento in Svizzera della psicologia analitica junghiana, a cui si è votata dopo una carriera da docente e critica letteraria, che aveva dato esiti fecondi in diversi campi della letteratura italiana in prosa e in poesia, non da ultimo con il libro Pinocchio e Collodi (Mondadori, 2002).
In Elsa Morante L’incantatrice (Lindau, pp. 564, euro 28,00), Rossana Dedola si assume il delicato compito di ricostruire la vita e l’opera della scrittrice, insistendo soprattutto sui motivi psicologici e sui traumi che soggiacciono alla sua talentuosa sensibilità: «Il senso di diversità – riflette Dedola –, di non appartenenza, deve essere costantemente corretto e rovesciato in qualcosa di speciale e di unico; non potendo far parte del gruppo dei ragazzi normali, grassi e coloriti, Elsa era portata ad accentuare le qualità che la mettevano al centro dell’attenzione, ben consapevole tuttavia che si trattava di una messa in scena, di una commedia di cui nessuno, eccetto lei, pareva consapevole».
Il suo carattere scontroso e la sua fragilità si confrontano con un’infanzia vissuta a Roma, al quartiere Testaccio, sotto il segno della miseria e della povertà, nonché di una famiglia numerosa e del tutto particolare. È noto, ad esempio, che la madre Irma Poggibonsi, maestra ebrea, concepisce i quattro figli fuori dal matrimonio con Augusto, il quale però non esita a riconoscerli.
Così come è risaputa la frequentazione della villa della ricca nobildonna romana Maria Maraini, dove Elsa è introdotta in un mondo fastoso e opulento, a lei del tutto estraneo, di cui non dimenticherà mai il fascino. Fascino che Dedola mette in relazione anche alla genesi della sua fantasia poetica, come la scrittrice avrà modo di dimostrare nel suo esordio romanzesco dirompente, Menzogna e sortilegio, edito per Einaudi nel 1948 e che costituisce, in clima di dispiegato «neorealismo», una vera sorpresa editoriale. E nondimeno permette a Morante di chiudere con una stagione complessa della sua vita, l’amicizia con il gesuita Tacchi Ventura – responsabile del concordato che il fascismo ha siglato con la Santa Sede –, un probabile aborto, poi la guerra, la paura della deportazione, il rapporto tormentato con Moravia, e persino le ombre di una sospettata ma mai rivelata relazione incestuosa con il padre Augusto.
Se il doppio statuto di psicoanalista e critico deponeva a sfavore di quest’ultimo, in realtà l’autrice mantiene un equilibrio che le permette di ricostruire la biografia morantiana con un piglio narrativo che non eccede mai nello psicologismo spiccio, ma anzi pone al servizio del racconto alcune interpretazioni e tecniche psicoanalitiche che offrono così al lettore la sensazione di osservare lo scorrere della vita di Morante e di percepire, in controluce e per chi le conoscesse, le sue opere maggiori.
Nel complesso, il pur documentato lavoro di scavo approda, più che alla smentita, talvolta alla rivalutazione, più sovente alla conferma dei luoghi canonici che la critica letteraria ha negli anni via via identificato nella sua opera, sin dalle magistrali analisi di Cesare Garboli. A ciò si lega il fatto che le argomentazioni di Dedola si fanno più deboli proprio laddove la studiosa usa gli strumenti dell’analisi junghiana al servizio dell’interpretazione dei sogni che Elsa appunta nel Diario 1938, quello nel quale registra gli alti e i bassi della discontinua relazione con Moravia sino al lieto fine del matrimonio avvenuto nel ’42, a guerra inoltrata.
È qui che lo sguardo dello psicoanalista oblitera quello del biografo, cedendo talvolta a interpretazioni certamente suggestive ma nondimeno aleatorie: «La caduta volontaria del padre dal balcone – scrive Dedola, dopo un sogno in cui il padre è scacciato dalla famiglia – pare alludere alla necessità di una morte della vecchia situazione, dei vecchi conflitti, dei vecchi complessi, per poter andare avanti; il sogno mette in scena il legame con una figura paterna debole, umile, che fa vergognare, che continua a mostrarle l’attaccamento esagerato che probabilmente ha segnato la sua adolescenza. Ora che ha una nuova vita, Elsa deve impedire a quel vecchio sentimento di inadeguatezza e di morbosità di entrarvi».
Al netto di qualche tara, il lavoro di Dedola è un ottimo strumento di attraversamento della biografia di Morante, ne mostra gli apici di successo, i momenti di depressione, i periodi in cui Elsa si trincerava in una scrittura feroce per obliare la vita o per stemperare il pensiero del suicidio che spesso qua e là affiora e che alla fine prende il sopravvento a metà degli anni ottanta.
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