Con quali occhi si guarda oggi Giorgio Morandi? È una domanda che scatta istintiva affrontando una mostra come quella curata da Maria Cristina Bandera e allestita a Palazzo Reale di Milano. Una mostra che non ha bisogno di effetti speciali aggiunti al titolo per darsi una ragione: semplicemente Morandi 1890-1964 (Civita e 24ore Cultura, fino al 24 febbraio 2024); una mostra accompagnata da un catalogo incredibilmente munito di quel bene ormai perduto che sono le schede delle opere, con una teoria di saggi utili e frutto di un disegno complessivo ben coordinato.

Il focus, a partire dal saggio di apertura firmato dalla curatrice, è sulla ricezione di Morandi, sia critica che collezionistica, dall’inizio della sua parabola sino alla soglia dei giorni nostri. A dispetto dell’immobilità dei suoi soggetti, Morandi è infatti un pittore quanto mai mobile, capace di scalare le stagioni, mettendosi alle spalle sguardi passati e facendosi trovare ogni volta allineato con i nuovi tempi. Sono esemplari due situazioni messe in luce nel saggio puntiglioso e avvincente di Flavio Fergonzi in catalogo. La prima è relativa alla metà degli anni sessanta, quando Morandi era restato del tutto indenne dal cambio di gusto di un collezionismo che scaricava artisti come Rosai e Casorati e si metteva a inseguire la novità di Fontana. Morandi si era sganciato dalla truppa dei suoi coetanei pittori umbratili. Su di lui si era acceso un nuovo sguardo sintetizzabile nella battuta di Marcello Mastroianni nella Dolce vita felliniana davanti alla riproduzione (non importa se un po’ brutalmente ingrandita) di una sua natura morta: «Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno».

“La dolce vita” di Federico Fellini, 1960: Marcello Mastroianni, Alain Cuny e la citazione morandiana

Altro celebre episodio è quello relativo al giugno 1964: il 18 di quel mese Morandi moriva; il 20 alla Biennale Venezia si assisteva allo sbarco conquistatore degli artisti pop. Una coincidenza sottolineata con rabbia e dolore da Roberto Longhi nel suo citatissimo necrologio per il Telegiornale Rai. Sottolinea Fergonzi, «Longhi non si sbagliava sulla tenuta critica (e mercantile) di Morandi dopo la morte. Ma non poteva immaginare che questa tenuta si sarebbe consolidata proprio in sintonia con quelle poetiche artistiche che al grande critico sembravano irrimediabilmente inumane e snob. Informale e arte concettuale, minimalismo e arte ambientale, pittura analitica e ritorno alla figurazione continueranno a fare i conti con Morandi, mantenendolo al centro degli interessi del collezionismo e del mercato».

E oggi con che occhi guardiamo Morandi? La mostra di Milano mette nelle condizioni ideali per una verifica. La selezione delle opere si mantiene sempre su livelli di grande qualità, con numerosi prestiti da collezioni private di quadri poco visti. Inoltre in tanti snodi del percorso è stata privilegiata una presentazione seriale dei soggetti, così da suggerire una delle chiavi più interessanti e contemporanee per entrare nel cosmo di Morandi. Bellissima, ad esempio, la sequenza delle tre nature morte con il panno giallo del 1952.

In quell’anno l’artista ne aveva dipinte una serie di dieci, riprendendo il motivo chardiniano e cézanniano sul quale si era cimentato già nel 1924 e 1929, con due opere esposte all’inizio del percorso della mostra. La mobilità della pittura di Morandi si rivela tanto minima quanto profonda, e capace di slittamenti radicali: le avventure visive di Morandi sono «ben più vivaci della sua stanziale biografia» (Fergonzi). Nel caso di questa serie di nature morte assistiamo all’approdo, a distanza di trent’anni, dal sublime esercizio di orchestrazione tonale di quell’opera-gioiello della Fondazione Longhi a una metamorfosi del panno giallo, contratto e pietrificato, reperto fossile di archeologia contemporanea. La profondità prospettica resa nella tela Longhi attraverso il motivo dell’impalpabile casseruola di rame rovesciata all’indietro viene invece rinnegata nelle nature morte del 1952, con la compressione drammatica degli elementi. Qui il cestino rivestito di carta posizionato al centro della composizione si schiaccia in una forma ambigua, quasi una protuberanza del tavolo su cui è appoggiato.

Dagli studiatissimi assemblages degli oggetti, così devotamente guardati da generazioni di collezionisti, oggi sembrano arrivare a noi segnali nuovi e diversi. Prendiamo due spettacolari nature morte della metà degli anni cinquanta esposte in mostra: quella del Kunst Museum di Winterthur e quella della Collezione Olgiati. Nella prima il gruppo di oggetti, in questo caso un insieme di forme molto ribassate, è posizionato sul bordo estremo del tavolo, trasmettendo un senso acuto di vertigine. Un sottile strato di polvere si è depositato sui coperchi delle due scatole in primo piano, ma non è sintomo di una stasi. Piuttosto funziona la chiave fornita dal versetto della Wast Land di Eliot, proposto da Francesco Arcangeli nel suo grande e combattutissimo libro dedicato a Morandi: «In un pugno di polvere ti mostrerò la paura».

Nella piccola Natura morta Olgiati i vasetti si stringono l’un l’altro al centro della teletta schermando il vaso-madre alle loro spalle; isolati al centro dello spazio sembrano proteggersi dalla pressione di un silenzioso assedio. L’ordine così poetico della composizione è definitivamente disturbato da un trasalimento di inquietudine.
Come leggere poi quei casi in cui Morandi ordina le sue nature morte mettendo gli oggetti in fila uno dietro l’altro invece che allinearli sul proscenio della tela? È una costruzione che troviamo replicata quattro volte in mostra, a partire dalla meravigliosa tela della Pinacoteca di Siena del 1957, proveniente dalla collezione di Cesare Brandi. C’è un che di drammatico in quel ritrarsi deciso e impaurito degli elementi, un senso di irregimentazione nel loro schierarsi in fila come per una contrazione improvvisa delle libertà. Giustamente nella scheda in catalogo si parla di uno «spasmodico restringimento visivo», sottolineato cromaticamente da quell’insolito vaso rosso messo in terza posizione che è quasi una ferita aperta sulla tela.

Morandi non si sottrae mai alla regola del non muoversi da toni sommessi e appartati, ma da sotto la coltre di quell’apparente immutabilità emergono con sempre più chiarezza segnali di vere tempeste psichiche. Accade anche per i paesaggi, presenti in mostra in numero sorprendente. Per Morandi è esperienza precoce come dimostra la tela datata 1913 proveniente da una collezione di Ancona. È una veduta appenninica insolitamente invernale di impianto già solidamente cézanniano che Morandi ricordava di aver «dipinta con fatica, tenendo la tela poggiata a una siepe, i piedi gelati». Nella sequenza dei paesaggi possiamo intercettare due fattori costanti: la pienezza dei colori della natura, con le dominanti verdi e azzurre, e all’opposto il senso di mutezza delle strutture architettoniche, isolate, quasi murate in se stesse, arroccate per difendersi da radiazioni che non sembrano proprio essere quelle della luce e del sole. La coesistenza di questi due fattori accende sulla tela uno stridore che sottrae pace a questi paesaggi morandiani, ribaltandoli in sismografi silenziosi di un complessivo dissesto.

Sono vedute pervase da una tensione che non si allenta mai tra una leopardiana propensione all’infinitezza e una sensazione opposta e insopprimibile di assedio. Paesaggi «inameni», li aveva definiti Roberto Longhi. Questa è un’altra delle chiavi con le quali oggi Morandi sollecita i nostri sguardi: un artista che fa i conti con l’inattualità di un tema come il paesaggio, senza metterlo al riparo dal disordine del mondo che lo circondava.