Monteleone, la battaglia del grano
Libri 1942, la lotta di alcune donne contro l’arroganza del fascismo in un piccolo paese pugliese diventa un processo che si trascina fino al 9 maggio 1950. La racconta in un volume Vito Antonio Leuzzi
Libri 1942, la lotta di alcune donne contro l’arroganza del fascismo in un piccolo paese pugliese diventa un processo che si trascina fino al 9 maggio 1950. La racconta in un volume Vito Antonio Leuzzi
La mattina del 23 agosto del 1942 alcune donne di Monteleone di Puglia, un paesino di montagna posto sul confine tra la provincia di Foggia e l’Irpinia, erano in fila davanti al forno del paese per macinare poche pignatte di granoturco. Quell’intenzione si poneva al di fuori delle norme previste dall’annonaria del regime mussoliniano, regolate da tessere alimentari, che imponevano alle popolazioni un consumo razionato di grano, poiché l’accumulo veniva spedito in Germania in cambio di carbone. A quelle donne sole e poverissime, perché i mariti e i figli erano sui fronti di guerra, il comandante dei carabinieri sequestrò i pochi chicchi di granturco che avevano. Innanzi a quell’atto di arroganza le donne di Monteleone si recarono dal commissario prefettizio, facendo presente che non avevano altro da mangiare, che in tutta risposta disse: «mangiate le pietre». La tensione salì d’improvviso, la discussione animata si trasformò in collera, costringendo il commissario prefettizio e i carabinieri a rifugiarsi e barricarsi nel municipio, dove accorsero circa quattrocento donne di Monteleone a dare manforte alla protesta.
Dal balcone del municipio furono sparati alcuni colpi di arma da fuoco per allontanare le dimostranti, ma l’improvvida azione sortì effetti opposti e la collera popolare salì ulteriormente, visto che alla protesta si unirono anche gli anziani. Ripetuti colpi di pistola furono allora sparati dalle finestre del municipio sui dimostranti e a terra caddero ferite una decina di donne e una bambina di 10 anni. Dopo i primi attimi di disorientamento le monteleonesi passarono alle vie di fatto, un cumulo di paglia venne messo davanti al portone e gli fu dato fuoco e di lì a poco le donne di Monteleone erano all’interno del municipio al grido di «vogliamo il pane vogliamo sfarinare». Furono devastati gli uffici e tagliati i fili del telegrafo.
Nei giorni successivi la forza pubblica diretta dal prefetto di Foggia Dolfin effettuò un vero e proprio rastrellamento casa per casa a Monteleone di Puglia, centinaia di persone subirono interrogatori, furono arrestate 96 persone, tra le quali un ragazzo disabile, tradotte nelle carceri di Lucera, San Severo, Torremaggiore, Bovino e altre città della Capitanata, dove due donne, Brienza Carmela e Provvidenza Maria Assunta si ammalarono rispettivamente di tubercolosi e malaria e morirono nel mese di ottobre di quell’anno. Una donna venne tradotta in carcere con una bambina di pochi mesi, che morì «per sopravvenuto malessere» come recita il verbale di decesso, mentre un’altra donna detenuta partorì in condizioni precarie nella cella del carcere. Un ordine di cattura venne spiccato nei confronti di quindici monteleonesi. La Procura il 3 settembre del 1943 rinviò a giudizio 96 persone, compresi i minori di 18 anni, la loro detenzione durò 14 mesi, fino a quando gli inglesi, che avevano liberato la zona, non decretarono la loro scarcerazione.
Risultarono incriminati per aver rubato un paio di scarpe Morra Rosaria e Paolo Morsillo, mentre Visconti Teresa, ritenuta capo della rivolta, fu rinviata a giudizio «per aver schiaffeggiato il carabiniere Altavilla nel momento in cui Volpe Pasqualina aveva tentato di disarmare il brigadiere Piccioni» un altro capo d’accusa riguardò un minore che si era impossessato di un timbro. Per molte donne le conseguenze della carcerazione ebbero riflessi pesanti sui loro nuclei famigliari, già privi di uomini mandati in guerra, molti bambini restarono soli, le terre incolte. La vicenda delle coraggiose donne di Monteleone di Puglia assunse significati grotteschi, oltre che dolorosi, perché il 25 giugno del 1946, a Liberazione avvenuta, 64 dei 96 detenuti, furono rinviati a giudizio dalla Corte d’Appello di Bari per «saccheggio e devastazione» i restanti imputati per reati minori come il furto delle scarpe. Il processo si protrasse fino al 9 maggio del 1950, quando la Corte d’Assise di Lucera dichiarò di «non doversi procedere per i reati ad essi contestati perché estinti per amnistia». A salvare le donne di Monteleone fu, paradossalmente, l’amnistia decretata da Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nell’immediato dopoguerra, oltre che segretario del Pci, voluta per pacificare l’Italia e usufruita dai fascisti, che si erano macchiati di reati politici durante il Ventennio.
Quelle donne, poverissime, umiliate nel profondo dell’animo da un processo grottesco, prima mussoliniano e poi repubblicano, negli anni ’50 emigrarono con i loro nuclei famigliari verso il nord America, in Canada e in particolare a Toronto, dove ancora oggi c’è una nutrita comunità, oltre che in Belgio e nel nord Italia. La vicenda delle combattive donne di questo paese dell’Appennino dauno, completamente rimossa per il dolore profondo provocato dalla lunga carcerazione e dall’interminabile processo, è tornata alla ribalta grazie al libro Donne contro la guerra. La rivolta di Monteleone di Puglia, (euro 10, Edizioni dal Sud) scritto da Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea.
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