Monte dei Paschi, lo shopping della finanza
Con un’operazione lampo (tecnicamente si parla di Accelerated Book Building), il Tesoro ha ceduto 315 milioni di azioni ordinarie di Monte dei Paschi di Siena (il 25% del capitale sociale dell’istituto), portando a casa 920 milioni di euro. In questo modo, la partecipazione dello stato è passata dal 64,23% al 39,23%. Sono stati tanti i fondi di investimento e le banche che hanno partecipato allo shopping. Italiani e stranieri. Tra i primi ci sono Algebris, Anima, Eurizon, Fideuram, Mediolanum, Kairos e Azimut. Spiccano invece tra i colossi internazionali i fondi americani Wellington management, Marshall Wace e Blackrock. In totale, tra istituti di credito e fondi, ben 150 investitori. «Un successo dove gli altri hanno fallito», è stato il commento a caldo di Matteo Salvini.
Ma la realtà è un’altra. La polverizzazione delle quote – Cgil Cisl e Uil hanno parlato di «spezzatino» e temono per il futuro dei lavoratori – indica che la partecipazione degli investitori è stata guidata esclusivamente da intenti speculativi. Nessun «operatore industriale», solo un’operazione di mercato per fare cassa. D’altra parte, sono parecchi gli hedge fund che hanno sottoscritto azioni. Proprio quella tipologia di fondi che, con un’operazione a tavolino, avevano determinato il crollo dell’istituto sette anni fa. Poi ci sono la tempistica e i messaggi che l’operazione ha voluto lanciare. Che lo Stato dovesse uscire dal capitale di Mps era scontato. L’Europa lo aveva chiesto,già nel 2017, quando l’ingresso del Tesoro nel capitale della banca si era reso necessario per evitare il suo fallimento.
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Mazzucato: «Le società di consulenza privatizzano i governi»Ma perché proprio ora? A parte il fatto che oggi le condizioni di mercato sono più favorevoli rispetto a un anno fa (Moody’s ha alzato il rating, il prezzo delle azioni è salito del 20% rispetto a un mese fa e del 72% rispetto a un anno fa, favorendo una plusvalenza di 300 milioni), pesano gli impegni assunti con l’Europa sul risanamento dei conti pubblici. Si ricorderà che il ministro Giorgetti, lo scorso 16 ottobre, durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri sulla manovra di bilancio 2024, parlò di un «programma ambizioso sulle privatizzazioni», da cui ricavare fino a 20 miliardi di euro.
Fu un modo per dire a Bruxelles: ora facciamo un po’ di deficit (15 miliardi), ma poi rimediamo vendendo quel che resta delle partecipazioni statali in banche e grandi aziende. Cominciando da Mps. Un impegno, invero, che già trovava riscontro nella Nota di aggiornamento al Def, varata a settembre. Sarà anche per questo che la Commissione ha promosso (a metà) la manovra? Forse.
Di certo c’è che presto potrebbe toccare ad altri asset. Nella grande svendita, insieme a Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, potrebbero finire le quote in Enav (53,28%), Enel (23,59%), Eni (4,34%, oltre al 25,76% attraverso Cdp), Leonardo (30,20%). Il governo più sovranista della storia che cede il controllo di settori strategici alla finanza internazionale. Perché «lo chiede l’Europa».
Ma torniamo a Mps. La cessione della quota rimanente potrebbe avvenire entro il 2024, in più fasi, attraverso una classica offerta pubblica, ovvero tramite fusione. Secondo Piazzetta Cuccia, Unicredit rimarrebbe ancora in campo, quale potenziale acquirente. Ma il governo guarda essenzialmente a Bpm, per una eventuale fusione. Intanto c’è attesa per l’udienza del 27 novembre, quando la Corte d’Appello di Milano deciderà sulle responsabilità dell’ex presidente Alessandro Profumo e dell’ex Ceo Fabrizio Viola. Ci sono in ballo oltre 2 miliardi di richieste di risarcimento.
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