Perché le coincidenze possano definirsi fortunate occorrono varie convergenze. Che un grande poeta e prosatore abbia studiato canto, mantenendone la passione anche dismessa l’idea di farne una professione, benché mai troncando del tutto gli esercizi vocali; che costui abbia poi sviluppato il proprio talento critico trovandosi a lavorare per un grande quotidiano con sede nella città stessa di uno dei più grandi teatri d’opera; tutti questi sono fatti che mostrano come anche le coincidenze abbiano bisogno di essere ben coltivate e assecondate, di modo che fortuna e valore si accordino.

Per uscire fuori dall’enigma che rischia di diventare l’incipit del presente articolo, le cronache musicali di Eugenio Montale sono state un riferimento per tante generazioni di lettori del Corriere d’informazione e del Corriere della Sera. Né la cosa gli impedì di continuare a essere poeta: lo si dice ricordando il rancore serbato da Giorgio Vigolo verso Giacomo Debenedetti, che lo «inventò» come critico musicale, impedendogli di continuare ad assecondare la musa.

Le cronache e critiche musicali d Montale hanno avuto varie sistemazioni, a partire dalle Prime alla Scala nel 1981 e infine nel Secondo mestiere, il Meridiano dedicato agli scritti su arte musica e società nel ’96. Si trattava di una scelta assai ampia, ma molti pezzi erano rimasti sulle pagine quotidiane, sopravvissute in emeroteche. Ora quella scelta viene rimpinguata da Concerti alla Scala 1954-1966, a cura di Stefano Verdino e Paolo Senna presso il canneto editore (pp. 230, € 22,00). I curatori si fanno guide esperte dentro usi e costumi di Montale, dal piano del suo stile a quello dei suoi umori, cogliendone i sottintesi nelle pieghe dei giudizi sui compositori, anche già classici o in procinto di diventarlo, da Brahms a Mahler a Britten (sempre Verdini e Sanna, per lo stesso editore, un paio di anni fa avevano provveduto al recupero di scritti montaliani dedicati a Verdi alla Scala. Le recensioni (1955-1966) e altri scritti. Questo Concerti alla Scala, come il titolo annuncia, è consacrato alla musica da camera e per orchestra. Inutile l’elenco dei nomi degli interpreti contenuti in queste pagine: ci sono dentro tutti, perché tutti passavano in quel tempio della musica: così ecco raccolta la memoria di quanto ascoltato alla Scala, comprese le attività per la Società del Quartetto: i grandi concerti a Milano in dodici anni aurei. Il lavoro di reperibilità dei testi ha trovato i suoi ostacoli, ma ora tutto ci viene consegnato con l’aggiunta di un bellissimo inserto fotografico, un intermezzo che introduce al clima d’epoca come meglio non si potrebbe desiderare, intonando il volume.

Ecco ad esempio Guido Cantelli, per il quale l’elogio di Montale è pieno: «è tornato a noi in forma perfetta, nervoso ma non isterico, fatto apposta per assottigliare e sgrassare le più note partiture romantiche, ma senza deformarle» e sembra «abitato e conteso dalle varie falangi dell’orchestra (ma senza danze del ventre)»; ed ecco, còlto in una polaroid mentre interpreta Ghedini, «l’imberbe pianista Maurizio Pollini, che a soli sedici anni esordiva alla Scala dimostrandosi ben degno del traguardo raggiunto».

Ma ad aprire la sezione fotografica è il ciuffo piuttosto a banana, un po’ alla maniera di Elvis, di Leonard Bernstein in dialogo con Isaac Stern, prima di un concerto (lo si evince dalla compostezza dei vestimenti e dai volti asciutti). Siamo al primo giugno del 1955. Bernstein è in tournée con la Filarmonica d’Israele e Montale ne scrive al modo consueto di questi pezzi, indotti dalla tirannia dello spazio: ma le note qui raccolte nella loro brevità nulla si risparmiano nel campo del giudizio, a nulla rinunciano nel campo degli umori.

Ecco dunque Bernstein, bellissimo e nel pieno periodo del suo fervore creativo: nella serata si esegue la sua Serenata in cinque tempi dal Convito di Platone, con Stern solista. Non sia mai che si ometta una perfidia, Montale ci tiene a dirci che «Platone è, s’intende, un semplice pretesto» ma, soprattutto per nostro vantaggio, ci dà una descrizione del brano di Bernstein così congegnata: «Ha la struttura di una sonata classica che sia stata spolpata, ridotta allo scheletro e cosparsa di pimenti percussivi». Così sono anche queste note di Montale: hanno la struttura di una recensione classica, spolpata e così via. In ciò, portata a una sua immediata funzionalità, come la musica di Bernstein, che «in certi momenti sembra dire: ecco, la melodia sarebbe questa, ma ve la risparmio». Così Montale: ecco la mia osservazione, ma ve l’accenno e passo oltre.

Non s’era risparmiato Montale intorno ai suoi venti anni, come ci dice un episodio di quelli che vale la pena vivere per poterli raccontare ricamandoci un po’ sopra. Sulla scia di una indicazione di Franco Contorbia, lo puntualizza, andando alla ricerca di sparse tracce, con un andamento da giallista, Corrado Viola, Il melomane all’opera Sul primissimo Montale (Fabrizio Serra, pp. 107, e 34,00), in un libro che è la ricostruzione del momento antichissimo di Montale critico musicale involontario. Vittorio Guerriero, del tutto inesperto di cose musicali, viene nominato critico dal suo giornale. O forse, secondo un’altra versione sempre montaliana, tornando dalla recita annoiato e svogliato, chiede al futuro poeta di scrivere al posto suo la recensione del Mameli di Leoncavallo, opera ignota a Montale che neanche ha assistito alla recita.

La recensione esce a firma di Guerriero, e Leoncavallo dichiara, incontrando Montale, che «mai, nessun critico lo aveva compreso così profondamente». Troppe coincidenze. Sarà vero? Proprio di quell’articolo parlarono? Una perfidia contro i critici? L’aneddoto ne insegna che se di tanto Montale fu capace senza nemmeno ascoltare, figurarsi di che risultati sarebbe stato capace perfino ascoltando. Così, Guerrero «fece carriera come autore di romanzetti audaci, galanti. Io ripresi a scrivere di musica quarant’anni dopo. Ma con il mio nome e cognome».