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Montale, angoscia e perfidie confidate a Carlo Bo

Montale, angoscia e perfidie confidate a Carlo BoEugenio Montale e Carlo Bo, foto da: «Caro Charlie», Raffaelli Editore

Carteggi d'autore Stefano Verdino ha raccolto e annotato con piacevole acribia i messaggi postali (lettere, cartoline, telegrammi) del poeta all’amico ligure, conosciuto a Firenze nel 1934: «Caro Charlie», Raffaelli Editore

Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 settembre 2023

I messaggi postali – lettere e telegrammi – sono trentacinque. Inviati a Carlo Bo. Mittente, Eugenio Montale. Vanno dal 1935 al 1975. Sono amari e scherzosi, in principio. Il tono muta poi in affettuosa cortesia, fino all’ultimo telegramma dell’11 novembre 1975 indirizzato al Prof. Carlo Bo, via Maria Teresa 11, Milano, che doveva essersi congratulato per il conferimento del Premio Nobel: «Vi abbraccio con affetto. Eugenio M.».

Fino a oggi, nel profluvio di altri carteggi di Montale resi pubblici, non ci si era potuti infilare, da voyeurs, tra le ombre e nei «segreti» del carattere e nelle contraddizioni dell’uomo degli Ossi di seppia. Lo svelamento delle missive inviate a Carlo Bo fa affiorare il carattere di Montale in uno dei periodi psicologici suoi più complessi – «che ci faccio io qui?», l’incombenza ossessiva del fascismo, la passione per Irma Brandeis (la Clizia delle Occasioni), il vagheggiato irrealizzabile sogno di emigrare negli States, la presenza quotidiana della Mosca, indicata sovente con una una «X» –, corroborato con le note superesaustive a corredo delle lettere, in un ordito fittissimo di piacevolissima e insuperabile acribia, dovute a Stefano Verdino: Caro Charlie Eugenio Montale a Carlo Bo (Fondazione Carlo e Marise Bo, Raffaelli Editore, pp. 150, € 16,00).

Il genovese Montale e Bo si conobbero a Firenze nel 1934. L’uno direttore pro tempore del WC (il gabinetto Vieusseux, alluso da Montale). Nato a Sestri Levante nel 1911, Carlo Bo si era appena laureato all’Università di Firenze. I due liguri si intesero, anche se Montale covava una insanabile rivalsa per la sua originaria città che gli «aveva lesinato pane e onori» – come aveva scritto all’amica Lucia Rodocanachi – costringendolo a emigrare a Firenze per trovare una qual forma di sopravvivenza materiale, prima presso l’editore Bemporad e poi bibliotecario al Vieusseux. Erano anni di angosciata sofferenza che Eugenio riversava sul giovane Charlie il quale, molti anni dopo la loro confidenza, frugando nella memoria, il giorno della scomparsa di Montale, avrebbe rievocato i giorni della frequentazione fiorentina: «Montale arrivava alle Giubbe Rosse puntualmente a mezzogiorno, poi alle sette di sera, sceglieva il punto più buio di una stanza del locale, sedeva, accendeva la ventesima sigaretta del giorno in attesa del caffè. Non parlava e tutt’al più sussurrava… L’idea che mi sono fatto dell’uomo: il silenzio… un certo umor nero, la quotidiana professione del “cupio dissolvi”… Il suo voler stare separato dal mondo, il suo spirito di opposizione e nello stesso tempo il desiderio di trovare un modo di vita dove dignità e decenza potessero convivere con un minimo di certezza».

È possibile, guardando Montale al tavolino delle Giubbe Rosse, scoprirlo leggere qualche lettera a lui indirizzata per poi farla a pezzettini e bruciarla nella tazzina del caffè ormai vuota. Così devono essere finite le lettere che Carlo Bo gli avrà sicuramente inviato in risposta a quelle che oggi si pubblicano: una delle quali (29 agosto 1939) reca la raccomandazione: «Non mettere in archivio questa lettera disonorante». I messaggi di Montale a Bo non parlano praticamente mai di letteratura, semmai alludono a letterati, sempre acidamente presi in giro, sui quali si fondano feroci pettegolezzi. Le perfidie di Montale.
Esplorando quanto andò scrivendo a Bo sorge il sospetto che Montale avesse riconosciuto nel giovane ligure una specie di complice, un personalissimo confessore cui affidare i propri tormenti – Eusebio muore / ma c’è abituato / fu grave errore / essere nato – coniugandoli, in fughe sarcastiche, alle tradizioni gastronomiche della comune terra: acciughe in salamoia, trenette e trofie… Montale era goloso? Sicuramente angosciato dall’esilio fiorentino, rimpiangendo e detestando la città natale.

«La curiostà – raccontava Carlo Bo – era una delle sue virtù maggiori, lo si notava quando seguiva un giovane (e alle Giubbe Rosse ne passavano di nuove prede); Montale voleva soprattutto conoscere e non lasciava la sua vittima e il suo momentaneo idolo fin quando non avesse esplorato bene e tutto il nuovo soggetto. Appagato dalla curiosità, staccava la corrente e il gioco finiva». Per poi arrivare a un giudizio ferale confidato a Piero Calamandrei che lo affidò al proprio diario il 9 maggio 1939: «Montale mi ha confidato la sua idea sullo stato dei giovani: non sono fascisti, ma non sono neanche antifascisti. Considerano gli antifascisti come degli scocciatori: dei rompicoglioni».

Una cartolina del 7 maggio 1936 con l’intestazione Gabinetto Vieusseux inviata da Montale a Dear Carlino, offre l’opportunità a Verdino di una nota che implica lui e il destinatario. «La sirena dell’adunata m’era sfuggita, ma la Polacca si precipitò nel salotto rosa urlando: Signorine è stata presa Addis Abeba!, e tutti insieme guardammo attraverso le stecche il primo muoversi dei plotoni accorrenti…». Dell’esistenza di questa missiva – precisa Verdino – mi parlò lo stesso Bo durante una intervista che gli feci, pubblicata poi con il titolo Quando portai Montale per la prima volta al casino… Carlo Bo, ironizzando: «Al casino ci andavamo un po’ tutti noi giovani e lui non c’era mai stato, perché era timido… Montale si era innamorato di una austriaca…».. Storia pettegola che era girata, ripresa anche da Gaetano Afeltra in un articolo sul Corriere della Sera in cui si raccontava come la sera del 9 maggio 1936, allo scopo di evitare l’adunata in piazza della Signoria, organizzata dal regime e accolta con entusiasmo dai fiorentini, per ascoltare dagli altoparlanti il duce proclamante l’impero, Montale si era infrattato nel casino di madame Saffo che, pur nei grovigli sentimentali nei quali si sentiva costretto (con Irma Brandeis e con la Mosca) aveva preso assiduamente a frequentare, soprattutto per la bella austriaca che faceva parte delle signorine della prima quindicina di maggio e della quale si era innamorato. E mentre Montale si intratteneva con la fanciulla la voce di Mussolini gli arrivava attraverso le persiane della casa chiusa. Non dovette resistere troppo al richiamo del roboante duce. Uscì dalla maison e si avviò verso piazza della Signoria già stracolma, incolonnandosi nelle rappresentanti del sindacato delle ostetriche.

Nel garbuglio in cui Montale si trovava a Firenze riuscì anche a occuparsi di questioni pratiche. Data l’incombenza politica dei tempi doveva aver pensato di sistemare la propria situazione professionale: creare un rapporto più burocratico con i giornali su cui scriveva facendo domanda di iscrizione all’Albo dei Pubblicisti. Si rivolse allora a Giovanni Ansaldo per ottenere la documentazione sulla sua «antica» collaborazione a Il Lavoro di Genova. «Lei mi aveva gentilmente promesso il documento di cui ho bisogno: cioè un foglietto nel quale si dichiara che il sig. E. M. è collaboratore compensato del “Lavoro”. Ma per quanto le abbia scritto un paio di volte nulla ho avuto e ottenuto. È dunque possibile o no averlo? Comincio a temere che neanche sette anni di assenza abbiano saziato i miei concittadini, pronti, oggi come ieri, a credermi un perfetto coglione».

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