Michel de Montaigne (1533-1592), nell’impulso allo scrivere di sé, non dismette un tono di cronaca quotidiana o, quanto meno, è in una formulazione ‘giornaliera’ – acta diurna – ch’egli intende dar conto a sé di sé medesimo, nella forma dell’essai. Il saggio è pensato e registrato entro la coordinata giornaliera della meditazione quotidiana, quale fu da Montaigne elevata a prova morale, dunque a exemplum, senza però intercidere il segno – o la traccia – dello ‘scritto giorno per giorno’.

Qui la dimensione della misura quotidiana dà significato morale alla regolare composizione del meditare in scrittura. Insomma, negli Essais lo scrupolo – o l’obbligo – del riflettere il proprio esistere, si restituisce libero d’esser agito nell’occasione d’ogni giorno.

Il tipo di scrittura ‘diaristica’ ha il suo presupposto in una tenace persistenza del ritmo giornaliero quale fu istituito a regola nell’Ordo monasterii e nel Praeceptum da Agostino e poi, cento e più anni dopo, da Benedetto. Per niente consunto e fragile, è questo richiamo antico che agisce in Montaigne. È l’attenersi al rispetto d’una norma che può conseguire un ‘ordine’ alle molteplici e opposte istanze e intenzioni, ai ‘temi’ e agli argomenti che chiedono d’essere ‘saggiati’. Il rischio della dispersione nasce dalla elevata qualità del talento, dalla finezza delle doti di Montaigne. Egli ne è consapevole e in questo pensiero insinua perfino un compiacimento dal quale emana un moto di comprensione, una indulgenza verso sé stesso. I suoi difetti, le sue umane debolezze che Montaigne conosce bene, sarebbero così il portato d’una virtù assai alta e le sue codardie il segno più sicuro di un lignaggio ‘regale’. Non sempre è opportuno censurare e condannare l’autocompiacimento.

Anzi, riconoscere a sé stessi qualità rilevanti impone, piuttosto, responsabilità ancor più forti. Ciò che conta è d’esser consapevoli delle proprie doti con una lucidità priva di orgogli, di supponenze, di fatue mondanità. La lucidità che affronta eroicamente ciò che è costantemente in agguato: la disperazione, il contrappasso al quale si sa destinato Montaigne che possiede doni di alta virtù qualora ad essi non si attenga giorno per giorno. Chi sa di avere perfezioni è in grado anche di dissoverle. C’è il tratto luciferino dell’intelligenza che comporta – anela, ricerca, aspira – la propria caduta.

Così Montaigne. La sua condotta intellettuale non potrà che alimentarsi di rispecchi, di affinità, di riconoscimenti elettivi per appagarsi in un’intimità solitaria più che in opera compiuta: l’opera sua resterà per lui sempre inconclusa. Afferrata e posseduta, riconosciuta e pensata come un insieme conchiuso, lo sarà solo da altri, dai lettori che verranno.
La scrittura è esercitata da Montaigne come variazione quotidiana che si muove su un tema fisso: la consapevolezza della transitorietà, del ruit hora, del pervenire della morte.

Giorno per giorno, ovvero il ricorso ad una unità temporale convenuta, il conferire al ‘giorno’ funzione di cardine, di ‘tenuta’ permette la consapevolezza dell’incommensurabilità del tempo che è sapere la impossibilità di eludere la morte. La coscienza della morte perveniente motiva l’istituzione canonica del tempo: horae canonicae. E la dominanza ineluttabile del tempo sta nel sentimento d’attesa della notte durante le ore del giorno e d’aspettazione dell’alba nel volgere delle ore notturne. Attesa, aspettazione, Erwartung.

Si legge nel Salmo (49, 1) a solis ortu usque ad occasum; la regola come ‘giornata’ consente di identificare nella misura del giorno – nell’ordine del giorno – non solo i modi efficaci adatti a recare una sospensione del pensiero della morte a favore d’un operare della vita, ma, insieme, installa nel tempo del giorno la presenza della morte. Il tempo della morte avvolge da ogni parte ciascuna alba e ciascun tramonto, è – propriamente – il loro cielo. E, nel nostro essere in attesa, si insinua il tempo della morte in forma, appunto, di ‘giorno’. Recita Virgilio: stat sua cuique dies, «a ciascuno è fissato il suo giorno» (Eneide, 10, 467).