Sono passati vent’anni dalla morte della scrittrice francese Monique Wittig ma anche cinquanta dalla prima edizione del suo Il corpo lesbico. Quest’ultimo è uscito ora ritradotto in italiano da Deborah Ardilli (Vanda Edizioni, pp. 263, euro 17) con una bella prefazione, intitolata «Eroiche nella realtà, epiche nei libri», che ne ricostruisce puntualmente la genesi e la ricezione accidentata intrecciandola al profilo biografico e intellettuale di un’autrice tanto originale da risultare spesso spaesante e talvolta fraintesa quando non letteralmente avversata.

IL SUO ESORDIO letterario risaliva al 1964: L’Opoponax le era valso il prestigioso premio Médicis, recensioni lusinghiere di Marguerite Duras e Claude Simon nonché un’amicizia importante con Nathalie Sarraute. Einaudi tradusse e pubblicò quell’esordio: negli archivi, il documento con cui Minuit cede i diritti per l’Italia de L’Opoponax attesta anche un’opzione sul successivo romanzo dell’autrice ma quando nel 1969 uscirà Les Guerrillères la casa editrice torinese non ne farà parola e bisognerà attendere il 1996 perché il gruppo bolognese delle Lesbacce incolte ne realizzi una traduzione circolata in ambito militante.
Il corpo lesbico esce in Francia nel 1973 e in Italia lo pubblicano nel 1976 le edizioni delle donne. Oggi, la nuova traduzione pone rimedio agli equivoci interpretativi di allora, alle scelte formali non puntuali alimentate dal rapporto privilegiato che all’epoca il femminismo nostrano aveva con le francesi di Psychanalyse et Politique i cui obiettivi e linguaggi andavano in una direzione del tutto opposta a quella di Wittig, esplicitamente ostile al pensiero della differenza, alla psicoanalisi e alla «scrittura femminile».
I tracciati asincroni del lesbo-femminismo tra Francia e Italia, l’eterno ritorno di un’autrice pronta a essere riletta da noi ogni volta che, come scrisse Simonetta Spinelli, «c’è bisogno di radicalità», sommati ai testi teorici della stessa Wittig consentono oggi una maggiore comprensione della sua scrittura.
Negli anni ’80-’90 lei stessa affida ad alcune pagine de Il pensiero straight una limpida esegesi dei propri (anti)-romanzi, per dirci che i pronomi personali sono l’oggetto principale di tutti i suoi libri: «Ne Il corpo lesbico il soggetto parlante è un ‘i/o’ (j/e) che va al di là delle categorie di uomo e di donna ed è piantato nel corpo della società eterosessuale come una spina in un piede».

LA BARRA NON INDICA tanto una scissione quanto un eccesso, uno sconfinamento richiesto dal farsi soggetto. Wittig legge la teoria dell’enunciazione di Émile Benveniste in un’ottica femminista, materialista e lesbica che non si accontenta di celebrare la «diversità» o di accomodarsi nel margine bensì si attesta piena titolarità a dire il sé e il mondo: «Ogni volta che dico ’ioʼ, riconosco il mondo dal mio punto di vista e attraverso l’astrazione rivendico l’universalità» scrive ne Il pensiero straight. Di testo in testo, Wittig sovverte il canone letterario occidentale, a partire dalle sacre scritture: il corpo di Cristo che attraversa l’esistenza si trasfigura in un corpo lesbico la cui Passione non è sacrificio o martirio ma erotismo totale, che non esclude alcuna parte del corpo né alcuna secrezione: «La ciprina la bava la saliva il moccio il sudore le lacrime il cerume l’urina le feci gli escrementi il sangue la lingua la gelatina l’acqua il chilo il cimo gli umori le secrezioni il pus». Una mappatura corporea minuziosa e senza infingimenti (che Wittig scrive in lettere maiuscole) interrompe il flusso dell’azione e rende tangibile nel segno grafico la materialità di un organismo scrutato così da vicino da risultare irriconoscibile per come di solito viene rappresentato.

«Ne Il corpo lesbico, l’io diventa così potente da attaccare l’ordine eterosessuale dei testi, da dare l’assalto al cosiddetto ‘amore’, agli eroi dell’amore, e lesbicizzarli, lesbicizzare i simboli, lesbicizzare gli dei e le dee, lesbicizzare gli uomini e le donne. Questo stesso ’ioʼ può essere distrutto e resuscitare. Niente resiste a questo ’ioʼ (o a questo ‘tu’ che è lo stesso, perché è il suo amore), ‘io’ che si propaga nell’intero universo del libro come un flusso di lava che niente può fermare». Le amanti i/o e t/u si cercano con furore, si sventrano, frantumano e dilaniano in una rapsodia di reciproco godimento fino allo stremo della sostanza, fino ai limiti dell’immaginario amoroso, laddove il corpo (del testo) si sfrangia, la lettura si fa impervia e «la donna» cessa di esistere. È in questa collisione tra sesso e senso che avvengono le metamorfosi mitiche delle amanti in creature animali e mitologiche che alludono ai fantasmi abietti attraverso cui la norma immagina il lesbismo: l’esasperazione sollecita una presa di coscienza della mortificazione e della cancellazione patita, non certo un compiacimento.

NEL 2023, l’anniversario della morte della scrittrice è anche l’occasione di iniziative dedicate alla sua vita e alla sua opera, tanto in Francia, Svizzera e negli Stati Uniti dove è vissuta, quanto in Italia, dove dallo scorso 15 gennaio l’associazione Lesbiche Bologna ha organizzato il ciclo di incontri «Nel cantiere letterario di Monique Wittig» curato da Sara Garbagnoli e Eva Feole, quest’ultima autrice della prima monografia italiana dedicata al pensiero e all’opera letteraria di Wittig dal titolo Corpo a corpo con il linguaggio (Ets, 2020). Un incontro al mese circa, ciascuno incentrato su un’opera presentata e analizzata da studiose, traduttrici e appassionate che terminerà il 28 maggio con l’appuntamento dedicato a Virgile, non condotto da Margherita Giacobino.
A ciò si aggiungono ora anche le ceramiche di Félixe T. Kazi-Tani in mostra fino al 23 luglio (insieme a opere di Sido Lansari) presso il Palazzo Rebaudengo di Guarene d’Alba nell’ambito della mostra RAW, esito di una collaborazione tra Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e ENSBA Lyon. Designer e artista multiforme, Kazi-Tani ha realizzato un’installazione intitolata L’Animale que donc je suis (hypothèse #1), ovvero «l’animale che dunque sono», in cui su un manto nero di polvere ossea sono distese come stoviglie su una tavola imbandita sculture in ceramica smaltata a forma di foglia o di vulva che riportano citazioni da Il corpo lesbico e da Appunti per un dizionario delle amanti, scritto con Sande Zeig, sul cibarsi di corpi e poesia, laddove il cadavre è sempre exquis e lo si mangia con gusto. Ma, giochi di parole a parte, il testo rivendica una continuità tra umano e bestiale che lega l’amare e l’ingoiare al punto che per rendere omaggio alle creature amate si può divorarle e non necessariamente sopraffarle (viene in mente un bel racconto di Clarice Lispector sul mangiare le galline…).

L’ARTISTA mette in contrasto questi brani con altri tratti dalla Storia dell’erotismo di Georges Bataille che individua nell’esuberanza sessuale degli esseri umani un perturbante residuo di animalità a cavallo tra sacralità e trasgressione. L’opera si inserisce in un progetto di ricerca più ampio sulle norme coloniali ed eterosessiste che reggono la cultura culinaria occidentale e che si depositano nei ricettari classici ma vengono superate in quelli nati all’interno della comunità queer, come per esempio le ricette di Gayle Rubin e Pat Califia oppure The Political Palate: A Feminist Vegetarian Cookbook edito nel 1980 dal Bloodroot Collective.
Attraverso ricerche d’archivio, l’artista interroga i criteri sociali con cui ci si dispone a tavola, con cui si organizza il lavoro (chi procaccia, chi prepara, chi cucina?), con cui si scelgono le pietanze a seconda delle occasioni e dei principi etici (si può essere queer e mangiare carne?) e scrive una controstoria Lgbtq della gastronomia in cui nutrire è amare e amare è nutrire. A decenni di distanza, gli scritti di Wittig continuano a nutrire la fantasia e l’orizzonte politico del femminismo.