Cultura

Monique Wittig, lo sguardo sovversivo

Monique Wittig, lo sguardo sovversivoMonique Wittig ritratta da Babette Mangolte

TEMPI PRESENTI Gli scritti teorico-politici dell’autrice francese sono al centro di alcune recenti traduzioni italiane. Nel 1992 furono raccolti nel volume «The straight mind», uscito prima in inglese, poi tradotto e in parte riscritto per l’edizione francese del 2001 intitolata «La Pensée straight». Tra le fondatrici di « Gouines Rouges», collaborò con la rivista «Questions Féministes»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 luglio 2019

In un intervento pubblicato nel 2011 sulla rivista Genesis con il titolo Attraversare i confini: pratiche culturali e politiche del femminismo italiano (anni ’70 e ’80), Simonetta Spinelli scriveva che «in Italia Wittig appare e scompare. Si ha una conoscenza episodica e frammentaria delle sue opere. Con una particolarità: ogni generazione legge e si appassiona a opere diverse, che a loro volta appaiono e scompaiono. Di gran parte dei suoi scritti, ad ogni generazione, lesbiche ed etero danno interpretazioni discordi e contraddittorie. Ma ogni volta che si crea un ristagno politico, un tentativo di ricondurre il dibattito entro sponde rigidamente perimetrate, qualcuna riscopre Wittig e se ne assume lo scandalo».

QUASI DIECI ANNI DOPO queste parole, Monique Wittig (1935 – 2003) fa nuovamente capolino nel contesto italiano attraverso i suoi scritti teorico-politici che nel 1992 furono raccolti nel volume The straight mind, uscito prima in inglese, poi tradotto e in parte riscritto dalla stessa autrice per l’edizione francese del 2001 intitolata La Pensée straight. Ultimamente in Italia, il volume è stato oggetto di gruppi di lettura, discussione e traduzione tra Torino, Bologna e Milano e uno di questi, condotto dal collettivo La Lacuna, ha diffuso online una traduzione italiana intitolata Il pensiero straight e altri saggi (pensierostraighthome.files.wordpress.com).
Contemporaneamente, l’editore Ombre corte ha dato alle stampe un’altra traduzione curata da Federico Zappino e intitolata Il pensiero eterosessuale (pp. 143, euro 14). Al netto delle differenze, anche rilevanti, di metodo e di esito, tra le due traduzioni, emerge un dato: gli scritti di Wittig continuano a interpellarci, e come scrisse Spinelli: «Wittig continua a essere un punto di contraddizione perenne». La doppia versione del titolo italiano ne è già un indice: soltanto Il pensiero straight mantiene l’effetto di contaminazione linguistica caro all’autrice, nonché la presenza del termine ambivalente straight che in inglese significa sia «etero» sia «diritto», con echi che, mediante i termini francesi droit e droite, da diritto portano a destra.

A quel volume di saggi scritti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, l’autrice consegnò il precipitato intenso e conciso di un lungo lavorio teorico, politico e linguistico. Monique Wittig era stata tra le prime animatrici del movimento di liberazione delle donne in Francia, una di coloro che il 26 agosto 1970 pose una corona di fiori sotto l’Arco di Trionfo in onore di colei che è ancora più ignota del milite ignoto, sua moglie. Prima di allora, aveva pubblicato nel 1964 un romanzo sperimentale intitolato L’Opoponax che le era valso il prestigioso Prix Médicis e un’immediata traduzione da noi per Einaudi. Per tutta la vita, praticò e la scrittura creativa e la scrittura politica (l’una e l’altra rispettivamente sempre più inscindibili). Fu tra le fondatrici del gruppo lesbico rivoluzionario Gouines Rouges e contribuì prima alla rivista Questions Féministes, poi, a seguito di una profonda rottura attorno al nodo lesbismo, eterosessualità e femminismo, preferì collaborare con Feminist Issues. Lasciò Parigi per gli Stati Uniti nel 1976 e lì insegnò francese e women’s studies in diverse università, l’ultima delle quali in Arizona, a Tucson, dove morì non ancora settantenne. Nell’orizzonte teorico di Wittig si possono enucleare due temi principali tra loro legati che permettono anche di comprendere il lavoro di scrittura presente nelle opere letterarie (che qui non tratteremo): il primo riguarda le forme materiali e simboliche attraverso cui la differenza sessuale viene costruita e poi illusoriamente naturalizzata, il secondo concerne l’eterosessualità, o meglio il pensiero straight, come sistema di potere e di senso.

LE PENSATRICI femministe materialiste con cui Wittig era in dialogo – Colette Guillaumin, Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu in primis – sono all’origine di una rivoluzione dello sguardo di cui ancora si fatica a cogliere l’importanza e le implicazioni. La loro visione del sesso è radicalmente anti-naturalista e intersezionale e affonda le radici tanto nel materialismo storico e dialettico quanto nella critica dell’ideologia razzista. Nel saggio Non si nasce donna, chiaro omaggio a de Beauvoir, scrive: «la razza, esattamente come il sesso, è considerata alla stregua di un ‘dato immediato’, di un ‘dato sensibile’, di una ‘caratteristica fisica’ appartenente a un ordine naturale. Eppure, quella che crediamo essere una percezione fisica e immediata è solo una costruzione mitica e sofisticata, una ‘formazione immaginaria’ (termine mutuato da Guillaumin, nda), che reinterpreta determinate caratteristiche fisiche (di per sé neutre come tutte le altre, ma in realtà selezionate e connotate dal sistema sociale) attraverso la rete di relazioni in cui quelle caratteristiche vengono percepite. (Determinate persone sono percepite come nere, quindi sono nere; altre sono percepite come donne, quindi sono donne. Il punto, tuttavia, è che per poter essere percepite unanimemente in quel modo, devono prima essere state prodotte in quel modo)».

WITTIG RIFIUTA la dicotomia sesso/genere, che trova fuorviante poiché rischia di implicare che il «sesso» è un dato naturale mentre per lei è l’esito di un rapporto di «classe». Come nella teoria della storia di Marx ed Engels per cui i gruppi sociali sono prodotti da rapporti di dominio e di sfruttamento, per Wittig e le altre materialiste, uomini e donne sono classi dialetticamente prodotte e legate l’una all’altra da un rapporto di dominio. La nota che chiude la traduzione de La Lacuna chiarisce che in Wittig, «l’oppressione delle donne si dispiega attraverso la stretta articolazione tra un fatto materiale e un fatto simbolico». Sul piano materiale, i corpi, le coscienze e il lavoro delle donne sono oggetto di un processo di appropriazione che Colette Guillaumin, ripresa da Wittig, chiamava «sessaggio». Non si tratta di «schiavitù sessuale», come propone la traduzione di Zappino, ma di un termine plasmato per assonanza con «servaggio» per indicare un rapporto di appropriazione del tempo, degli spazi e della forza di produzione e riproduzione mediante il quale le donne vengono costruite in quanto tali. Sul piano simbolico, tale processo viene occultato e legittimato da un discorso che trasforma il sesso in un dato naturale, in un «mito», direbbe Barthes. Dunque, il sesso funziona come un feticcio che cristallizza e, naturalizzandoli, giustifica i rapporti di oppressione.

Il femminismo di Wittig, dunque, non lotta per valorizzare «la differenza» bensì per le donne come classe oppressa e per la sparizione di tale classe perché, dice, «nessuno è riducibile alla sua oppressione». È necessario quindi, riconoscere le dinamiche sociali che costruiscono «la donna» per diventare soggetti politici senza però smettere di immaginare un mondo e un orizzonte di senso diversi. Inoltre, ed è un punto cruciale, se le differenze biologiche tra i sessi assumono significato e pertinenza sociale solo nell’ambito dell’ordine che le crea, va osservato che tale ordine è eterosessuale. Infatti, il «sesso» è una categoria che opera riducendo le persone a una concezione etero e riproduttiva della loro anatomia. Wittig utilizza il concetto di «pensiero straight» per riferirsi all’orizzonte di senso secondo cui l’eterosessualità è il presupposto (il «contratto sociale») di qualunque relazione sociale. Rispetto a tale orizzonte, l’esistenza delle lesbiche è sovversiva perché portatrice di un desiderio che non è funzionale all’uomo né alla riproduzione della specie. Le lesbiche, afferma, sfuggendo all’eterosessualità sono come i fuggiaschi neri che si sottraevano alla schiavitù, sono transfughe di classe, sono dissidenti rispetto a quell’alterità dominata che il sistema di potere chiama donna.

Di conseguenza, come scrive nel saggio che dà il nome alla raccolta: «sarebbe improprio dire che le lesbiche si associano, fanno l’amore, vivono con le donne, perché ‘la-donna’ ha senso solo nei sistemi di pensiero e nei sistemi economici eterosessuali. Le lesbiche non sono donne». Questa dichiarazione, ormai assurta a formula, a slogan identificativo del discorso di Wittig, fece molto scandalo quando lei, prima di pubblicarla in versione scritta, la pronunciò alla Modern Language Association Convention di New York nel 1978. Molte persone non la compresero e anche chi pensò di comprenderla la trovò inaccettabile. Un aneddoto, non del tutto documentato ma tramandato da Leo Bersani e Preciado, narra che al convegno qualcuno, che evidentemente si era perso tutto il ragionamento, le chiese se avesse una vagina e lei rispose di no. Non perché negasse l’anatomia, le sue funzioni e i suoi piaceri, tutt’altro, basta leggere Il corpo lesbico per rendersene conto. Il fatto è che la nozione di lesbica va intesa al di fuori dell’ordine del discorso straight.

LESBICO è qualsiasi soggetto che pratica la sovversione dell’ordine eterosessista e patriarcale. Per Wittig, Baudelaire è un «poeta lesbico» perché, come scrive in Paradigmi: «Il lesbismo è molto più dell’omosessualità (concetto omologo a quello di eterosessualità). Il lesbismo è molto di più della sessualità. Il lesbismo apre un’altra dimensione dell’umano (nella misura in cui la sua definizione non si basa su una pretesa ‘differenza’ dei sessi). Oggi, le lesbiche stanno scoprendo questa dimensione al di fuori di ciò che è maschile o femminile». È per questo sentimento del possibile, per il respiro fresco di una dimensione umana transeunte, in divenire, che Monique Wittig continua a ispirarci.

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