Una pittura in 4:3 o in ancora meno spazio, la ratio, qualcosa che oblungo richiama la tela, proprio la pasta vischiosa dei colori spicciata dalla spatola sulla superficie ruvida, un che di pelle graffiata, al limite esulcerata; e nelle zone d’ombra, nelle sequenze silenziate dalla penombra, il senso caravaggesco del buio, dell’abisso da cui emerga un corpo: Monica di Andrea Pallaoro, in sala in questi giorni dopo essere stato in concorso allo scorso festival di Venezia, ha questa struttura austera, laconica, e un senso del colore incline a suggerire l’entità e le sfumature del dolore della protagonista, sulla sua pelle, tela, segnata. Il cinema di Pallaoro, già dall’esordio, Medeas, folgorazione di qualche anno fa ancora a Venezia, è un cinema che vuole ricongiungersi all’essenzialità espressiva del cinema classico – magari Dreyer, Murnau, fino a Ozu, Bresson – pur spingendo più in là, forzando i limiti del classico verso avanguardie, verso una forma fremente, sibilante al di là del quadro. Monica, al di là dell’angustia apparente della ratio, del formato (determinante per cogliere il senso del film), si forma come contrappunto rispetto a ciò che brulica oltre i limiti (stretti) dell’immagine, il fuori-campo, fuori-tempo, qualcosa di remoto e implicito nelle cose – feticci e fastigi della giovinezza –, tutto un coacervo di possibilità che risuona nei silenzi e negli smorti suoni penetranti distrattamente dalle finestre, mentre Monica (Trace Lysette) riprende confidenza con la dimensione domestica.

IL FORMATO è la base, la rigida codifica che istruisce, esalta una forma cinematografica allusiva, reminiscente, nei cui blocchi di materia, nelle intercapedini di sequenze materiali – è la sostanza degli olii, dei pigmenti sulla ruvidità della tela-mondo – non si può che entrare e partecipare dei silenzi umbratili, dei sibili essudati da sprazzi di luce dalle tende, dei ricordi che aleggiano in quella che fu la casa dell’infanzia. Ci si trova allora in quel versante del cinema contemporaneo in cui converge certo rigore della messa in scena e l’avanguardia del cristallo: prisma entro cui traguardare albori, riflessi, sagome indefinite, sfatte, ammutolite; un cinema che è di Reygadas, Dumont, Lisandro Alonso…

CERTO la prima impressione di fronte al film di Pallaoro è di claustrofobia, un’oppressione senza rimedio, un senso del mondo che pesantemente si stringe intorno a Monica schiacciandola, soffocandola, ma è proprio da questa chiusura che – per via estetica, cinematografica, cioè su base formale, a partire dal formato rigido per sciogliersi in forma – si schiude un mondo latente di possibilità. La riconquista degli affetti, di un luogo topico, la casa, forse anche il riconoscimento da parte della madre, passano per questa modalità, per questo cinema: il rapporto con la madre, con le origini, passa per il cinema. Ed è una scena-madre, magnifica, quella in cui Monica la lava: lei, Eugenia (Patricia Clarckson), la madre, si lascia lavare da quello che era stato suo figlio e ora forse riconosce in fattezze femminili; le accarezza, ne segue le curve sulle guance, la bocca, sembra riconoscerle. È come se il pudore derivante dalla nudità, tanto più in presenza di un figlio, fosse vinto dalla riconosciuta femminilità di quello che era stato un bambino sensibile e alacre molti anni prima, e poi una ragazza rifiutata, scacciata. La madre sembra accettare senza vergogna il bagno da parte di Monica – nel silenzio fattosi intenso, fattosi spesso, materia – e ciò sembra corrispondere a qualcosa di simile a un’ abluzione rituale, all’accettazione di lei sancita dall’acqua, della sua subentrata eppure connaturata femminilità.
Sembra che la figlia ora possa uscire dalla fitta coltre di tende, vetri, mogani, la cortina di specchi sulla cui superficie si riflettevano gli involucri pesanti e renitenti del mondo, sotto cui Pallaoro nascondeva (forse cercava di proteggere) Monica, e ora possa guardare alla realtà (all’America, patria, madre) con occhi più distesi, mentre suo nipote annaspa fieramente (aggrappandosi ai tasti di una pianola con dita rattrappite) dietro a un mai così sincopato, zoppicante – eppure così politicamente significativo – inno nazionale americano.