Il musicologo e giornalista Charlie Gillett scrive, nel 1970, un’interessante considerazione sul legame tra la black music e la Gran Bretagna: «C’é sempre stata una sorta di tradizione in Inghilterra fin dagli anni Venti, costantemente mantenuta da una minoranza di appassionati, nell’interesse per le forme meno conosciute della Black Music (Negro Popular Music). Con il succedersi delle varie mode musicali in Usa che rendevano gli stili progressivamente obsoleti, un gruppo di entusiasti in Europa si dedicarono a perpetuare quella musica collezionando dischi, importandoli e se possibile facendo suonare i protagonisti o riproponendo la loro musica con i loro gruppi».
È un filo conduttore costantemente teso che ha portato l’Inghilterra a essere un eterno laboratorio espressivo ed evolutivo per la «musica nera». Ballata nelle serate mod nei primi anni Sessanta e poi in quelle Northern Soul un decennio dopo, diventata colonna portante di buona parte della scena post wave dei primi anni Ottanta: Jam e Style Council, Dexy’s Midnight Runners, Redskins ma anche nomi ben più commerciali e abituali frequentatori delle parti alte delle classifiche come i Simply Red, i Wham!, gli Spandau Ballett, i synth poppers Soft Cell – vedi la celebre cover di Tainted Love di Gloria Jones, o gli Eurythmics che duettarono con la Regina del soul Aretha Franklin in Sisters Are Doing It for Themselves nel 1985).

UN CLASSICO
Un sound diventato progressivamente «classico» e costantemente rielaborato dalle nuove generazioni. Con il suggestivo nome di Acid Jazz (spesso l’importanza di un marchio – e in questo caso anche di un logo – è una chiave essenziale) alla fine degli anni Ottanta si creò una scena interessantissima che diede un enorme impulso al rinnovamento del contesto «black». Nel 1987 il dj Gilles Peterson, già attivo con innovative trasmissioni radiofoniche e Eddie Piller, uno degli artefici della nuova ondata mod alla fine degli anni Settanta, mettono insieme competenze, esperienza e passione per dare voce a quei nuovi suoni che stavano spontaneamente emergendo dai club londinesi e che tornavano a mettere il jazz al centro dell’attenzione, dopo anni di punk, new wave e synth pop. Ma non si trattava di sterili riproposizioni ma di un nuovo calderone di contaminazioni che attingeva anche dal soul, dall’elettronica, funk, musica latina, psichedelia, dance, guardava alle esperienze spoken word di Gil Scott Heron e Last Poets, non disdegnava elementi fusion, rap e hip hop. I preveggenti Style Council di Paul Weller avevano, un po’ confusamente, indicato, poco prima, la strada, la neo nata Acid Jazz Records prendeva il timone e lo indirizzava verso nuovi lidi.

GLI INIZI
Gli inizi sono incerti e colgono di sorpresa il pubblico e gli stessi fondatori, tra i quali il sodalizio dura poco. Qualche tempo dopo Gilles Peterson se ne va per formare l’altrettanto valida, sempre indirizzata sugli stessi binari, Talkin Loud Records. Intanto la scena incomincia a esplodere, soprattutto grazie alle serate nel mitico Dingwall’s di Londra, un tempo patria del pub rock e che aveva dato ospitalità anche a molte punk band del primo periodo, tra infiammati dj set e concerti live. Eddie Piller porta con sé in dote un nome di prestigio della sua precedente esperienza discografica con la Re-Elect The President, il James Taylor Quartet (filiazione dei fantastici mod heroes The Prisoners, da poco scioltisi), tra i primi a riprendere quel cool jazz strumentale da colonna sonora anni Sessanta, tra Jimmy Smith e Booker T and the Mg’s.
Dagli inizi rudi e spontanei passeranno a sonorità e arrangiamenti sempre più raffinati, cogliendo il grande successo nel 1988,con la ripresa del tema della serie televisiva Starsky and Hutch con Fred Wesley e Pee Wee Ellis, sezione fiati di James Brown. La band diventerà sempre più assidua frequentatrice dei dancefloor più sofisticati, si sposterà tra dance e ritorni a suoni più classici (anche nelle vesti semi occulte di New Jersey Kings), il leader James Taylor collaborerà con una lunga serie di grandi nomi, da Tom Jones agli U2, diventando una sorta di marchio di fabbrica, ricercato e stimato. Piller porta con sé anche i Jazz Renegades dell’ex batterista degli Style Council, Steve White, più tradizionali e scontati. A testimonianza del suo buon fiuto mette sotto contratto un promettente e sconosciuto gruppo, i Jamiroquai. Che dopo un singolo per l’etichetta si accaseranno con un contratto multi milionario con una major e troveranno il successo mondiale.

UNO SCHERZO
«La Acid Jazz Records nacque dall’esplosione acid dei tardi anni ’80. Adoravamo il sound e l’atmosfera ma presto ci annoiammo della musica acid house. Per scherzo, abbiamo dato vita alla nostra etichetta con pubblicazioni jazz, funk e soul ma con la trovata di aggiungere la parola ’estranea’ acid. L’etichetta fu subito un successo e sembrò catturare perfettamente l’essenza dei tempi. La musica che pubblicavamo sembrava perfettamente adatta per il dancefloor e in seguito all’enorme successo dei Jamiroquai aprimmo il nostro club, il Blue Note, che ebbe grande successo e fu il primo di una nuova generazione di locali della zona di Hoxton a Londra» (Eddie Piller, intervista a Billboard). Non lontani dal sound del James Taylor Quartet, anche se più frenetici, pulsanti, veloci e con il frequente uso della voce si mossero, dai primi anni ’90, i Corduroy. Tre album per la Acid Jazz, strumentalmente eccellenti, immagine smaccatamente Sixties, belle canzoni, retaggio Swinging London e un discreto successo commerciale. Scioltisi alla fine degli anni Novanta sono tornati sulla scena recentemente con un nuovo, discreto, album pur se ormai fuori tempo massimo. A luglio, peraltro, uscirà Men of the Cloth, il loro nuovo mini album. I Galliano furono tra le prime scelte della Acid Jazz Records, per la quale incisero, nel 1987, il singolo Frederic Life Still, stampato originariamente in cinquecento copie, andate esaurite in una settimana e arrivate velocemente alle diecimila, essenziale benzina per fare partire il motore dell’etichetta. Vennero però subito portati dal dimissionario Gilles Peterson nella sua nuova creatura discografica Talkin Loud con la quale realizzarono i quattro album della breve carriera, finita allo scadere degli anni Novanta, tutti di discreto successo e che mischiavano funk, jazz e rap (erano definiti «la risposta di Finchley – quartiere di Londra – ai Last Poets») in modo disinvolto e molto personale.

UNA PARTICOLARITÀ
I Brand New Heavies vengono scoperti da Eddie Piller e lanciati con due eccellenti album tra il 1990 e 1992. Il sound pesca nella tradizione soul funk ma con un approccio modernissimo, fresco, ritmato, a cui si aggiungono sonorità jazz e un groove di rara efficacia. Particolarità che li contraddistinguerà nel corso della carriera (tuttora la band è in attività) è la frequenza di collaborazioni esterne e cambi di cantanti e formazione, mantenendo però sempre il medesimo approccio sonoro.
La band ha all’attivo una dozzina di album, alcuni dei quali arrivati a lusinghieri risultati di vendite nelle classifiche inglesi, nonostante, in questo senso, gli ultimi anni abbiano riservato loro scarse soddisfazioni. Ebbero vita breve gli Young Disciples, guidati dalla splendida voce della cantante americana Carleen Anderson. Sfortunatamente, perché l’unico album realizzato, Road to Freedom del 1991 per la Talkin Loud, si configura come un perfetto manifesto di quella scena britannica che stava crescendo mischiando suoni, generi, ritmi diversi, collaborando e interagendo. Soul, funk, hip hop, blues, gospel, rivisitati in chiave moderna con l’apporto di eccellenze del giro neo soul inglese.
Registrato negli studi di Paul Weller, i Solid Bond, tra i musicisti troviamo, oltre allo stesso Modfather in incognito, anche gli altri ex Style Council Mick Talbot e Steve White, Pee Wee Ellis, ex sassfonista di James Brown e i colleghi Fred Wesley e Maceo Parker, anche loro alla corte del Re del funk e dei Parliament. Un gioiello che influenzerà generazioni di nuovi artisti. Anderson (figlia di Vicky Anderson, corista di James Brown, che sposerà successivamente Bobby Bird, membro dei Blue Flames) se ne andrà dal gruppo sancendone la fine ma iniziando una proficua carriera solista più vicina a sonorità soul tradizionali, riprendendo in maniera magistrale brani come Don’t Look back in Anger degli Oasis o Maybe I’m Amazed di Paul McCartney, collaborando con Paul Weller e, a lungo, con gli Incognito.
A proposito: gli Incognito sono da sempre uno dei gruppi di punta ascrivibili al concetto acid jazz. Guidati da Jean Paul “Bluey” Maunick, unico componente rimasto fisso nella formazione dagli esordi ad oggi, hanno rappresentato al meglio il concetto di collettivo artistico che si arricchisce, aggiunge, cambia, progressivamente nel tempo, intorno a un’idea sonora. Nel corso della lunga carriera si contano centinaia di membri della band (una sessantina solo i cantanti!).

DIECI ANNI
Il loro esordio è addirittura nel 1981 con l’album dal programmatico titolo di Jazz Funk a cui seguono dieci anni di silenzio fino a quando non vengo o reclutati dalla Talkin Loud e incominciano il lungo percorso con il loro funk jazz tinto da groove anche disco e soul, una tecnica strumentale mostruosa, libere incursioni in altri generi e influenze. Più di una ventina di album, numerosi remix, collaborazioni a iosa, tour incessanti e qualche corroborante e occasionale apparizione nelle charts inglesi (nel 1991 Always There si arrampicò fino al sesto posto). Una corrente interna all’Acid Jazz si sviluppò parallelamente, mantenendo forti legami con il funk più ruspante mischiato a un sound che abbracciava Hammond grooves, beat, soul, Traffic, Small Faces, Booker T and the Mg’s e nuove influenze. Ne furono tra principali rappresentanti i Mother Earth di Matt Deighton (che finì poi nella band di Paul Weller e sostituì Noel Gallagher negli Oasis in un tour del 2000, dopo uno dei tanti litigi con Liam). Incisero tre ottimi album per la Acid Jazz Records a metà degli anni novanta, con l’aiuto di James Taylor, Paul Weller, Simon Bartholomew dei Brand New Heavies. Deighton ha proseguito con una discreta carriera solista improntata a sonorità più folk rock. Sulle stesse coordinate dei Morther Earth si mossero, nello stesso periodo, i Freak Power, guidati da Norman Cook (da poco uscito dagli Housemartins e in procinto di diventare una star con lo pseudonimo di Fatboy Slim). Due album e un singolo Tune in, Tune out, Cop In che, dopo un discreto successo, nel 1993, viene utilizzato in una pubblicità della Levi’s due anni dopo e sbanca le classifiche inglesi e non solo, vendendo 200mila copie. Anche una vecchia conoscenza come Graham Day dei Prisoners intraprende un cammino simile, con i Planet. Splitting the Humidity è del 1995 ed è un bellissimo lavoro, come gran parte della produzione del chitarrista ma, come sua consuetudine, è un flop commerciale. Dice Day: «Mi è piaciuto fare qualcosa di totalmente diverso e trovavo esilarante guardare i volti dei fan mod dei Prisoners che semplicemente non sapevano cosa pensare. Ho deliberatamente cercato di non scrivere canzoni con melodie come avevo sempre fatto prima e mi sono attenuto a riff di chitarra e ritmi funky. Stavo scrivendo un secondo album, ero tornato a uno stile più tradizionale e stavo parlando con due dei Mother Earth (che avevano appena perso il loro cantante Matt) riguardo alla possibilità di fare qualcosa insieme. Avevo suonato un paio di canzoni in studio con loro quindi aveva senso. Sfortunatamente Eddie Piller ha detto che non voleva un secondo album (e non posso biasimarlo, non credo che il primo abbia venduto molte copie) quindi non è successo niente e per i Planet è arrivata la fine». Tra le modalità espressive e compositive del giro acid jazz c’è il campionamento di groove e ritmiche jazz e funk da sviluppare in nuove modalità.
È quello che diede il successo agli US3. Cantaloupe (Flip Fantasia) campionava il classico Cantaloupe Island di Herbie Hancock, trasformandolo in un brano hip hop jazz. Il risultato fu un milione di copie vendute negli Usa dell’album d’esordio del 1993 Hand on the Torch.
Tutto il disco gioca su campionamenti di classici o brani minori di soul jazz, da Grant Green a Theolonious Monk, Art Blakey, Horace Silver. Il tutto con un gusto modernissimo e freschissimo. La band prosegue con alterne vicende per una decina d’anni per poi tornare nell’oblìo. Rimane l’efficace slogan che li caratterizzava: «If jazz is the first way, and hip hop is the second way, then Us3 is the third way!». Non dissimile la strada intrapresa dagli UFO (United Future Organization), con un orientamento più lounge che facevano il paio (anche per le stesse origini di nascita) con i Pizzicato Five che, pur lontani dal concetto originale dell’ambito, sono tangenti a quelle atmosfere, più che altro per i riferimenti smaccatamente Sixties.
Anche l’Italia ha avuto una forte fascinazione per il genere (anche in virtù dei frequenti riferimenti alla tradizione lounge cinematografica di mostri sacri del genere come Ennio Morricone e Piero Piccioni, su tutti). Da Nicola Conte a Francesco Gazzara, dai Link Quartet ai Jestofunk, furono numerose le band che calcarono quei ritmi e quei riferimenti grazie anche a etichette italiane come Irma e Schema che ne furono sapiente tramite per il pubblico nostrano e internazionale.

LE RACCOLTE
Un cenno anche alle numerose compilation che sono uscite nel corso del tempo ma in particolare a quelle che prepararono il terreno fertile all’esplosione della scena, riprendendo quanto veniva ballato e apprezzato nei dancefloor londinesi del tempo.
In particolare i dj Baz Fe Jazz e Gilles Peterson nella serie «Acid Jazz», raccolgono brani più o meno rari di Eddie Jefferson, Funk Inc, Jack McDuff, Charles Earland, Idris Muhammad o nella serie «Jazz Juice» per la sotto label della Ace Records, la Street Sounds, dove si passa (in otto volumi) da Miles Davis a Sérgio Mendes dai Mar-Keys a John Coltrane.
C’è anche la serie «Jazz Dance» (dal titolo esplicativo) con Lee Morgan, Roland Kirk, Art Blakey, Mel Tormé, Herbie Mann, Illinois Jacquet o il Ramsey Lewis Trio e quella intitolata «Soul Jazz», sempre per la Ace, con Jimmy Smith, Hugh Masekela, Dizzie Gillespie. Parallelamente fioriscono anche quelle riservate alla miscela di jazz e sound latini, o più semplicemente «latin jazz», con nomi come Mongo Santamaria, Ray Barretto, Tito Puente, Joe Bataan.
La Acid Jazz pubblicherà una lunga serie di significative compilation dal titolo «Totally Wired» colme di piccole gemme che documentavano le nuove uscite degli anni Novanta nell’ambito, tutt’ora preziose fotografie di un’epoca pulsante e innovativa, che guardava all’attualità e al futuro con le radici saldamente ancorate a un glorioso passato. Che ci ha consegnato un sound e dischi che ancora oggi suonano attuali e stimolanti, senza avere perso quell’urgenza innovativa che trasmettevano e che sono il seme che ha fatto crescere così bene il giro inglese del New British Jazz, da Shabaka Hutchings agli Ezra Collective che ne sono una chiara prosecuzione artistica e di intenti.