Nel sito del Museo Nacional de Escultura di Valladolid, nella pagina dedicata alla storia dell’istituzione vallisoletana, si riconosce, usato a mo’ d’immagine-simbolo, il manifesto celebre impresso nel 1929 per promuovere la città fra le attrazioni nazionali. Eseguito da Eduardo Santonja Rosales, illustratore madrileno di successo in tempi di déco cosmopolita, il poster raffigura, accanto a due opere dello statuario cinquecentesco Alonso Berruguete, fra i capolavori assoluti di quelle raccolte, una coppia elegante, guida alla mano, intenta a stemperare la noia di un giorno di calura con una visita alle collezioni, allora istallate nell’ex Colegio de Santa Cruz. Nello stralunato dialogo le espressioni stravolte dell’Abramo e Isacco, già issato sulle impalcature instabili dell’immenso retablo per l’altar maggiore nella chiesa di San Benito, rispondono alla boccuccia a cuore della flapper curiosa, mentre la silhouette franta del suo compagno di svago, il cappello floscio negligentemente dietro le spalle, replica, per incomodo scivoloso, la posa non meno serpentina del San Sebastiano imberbe, occhi languidi e labbra dipinte da far invidia ad Antonio Moreno.

È suggestivo come, in una campagna più ampia spettante all’appena stabilito Patronato Nacional de Turismo (la dittatura di Primo de Rivera agli sgoccioli), quello che ancora era chiamato Museo de Escultura Polícroma Castellana venisse descritto attraverso un cortocircuito temporale a tal punto straniante, quasi la muta passeggiata della Bergman nelle sale dell’Archeologico di Napoli. Di lì a qualche anno, infatti, su spinta di Ricardo de Orueta, studioso uscito dai ranghi dell’Institución Libre de Enseñanza e datosi a pubblicare in versione bilingue i propri contributi sull’arte spagnola (l’occhio rivolto alla Francia e al volume epocale su El Greco, scritto a inizio secolo da Manuel B. Cossío), i tesori di quelle gallerie sarebbero stati organizzati nel racconto di una non meno severa cesura, che – nell’opinione condivisa dal Novecento ispanico – era andata incidendosi nell’accesso dei monarchi cattolici alla stagione europea del Rinascimento. Si trattò di un’operazione tanto più significativa perché agiva su un’arte «patriottica» come l’imaginería dipinta, intagliata nel legno, e costruita attorno a una figura canonica quanto quella di Berruguete, col suo catalogo nutrito di sogni dall’Antico e di riflessioni su Michelangelo.

Appare allora conseguente che, oggi, un luogo tanto simbolico – per impulso di Alejando Nuevo, direttore di ultima nomina già implicato nella gestione della Red Digital de Colecciones de Museos de España – torni a meditare su questa costruzione museografica, con un evento che, attingendo ampiamente ai depositi e mirando a mettere in rilievo le acquisizioni recenti, dimostra l’ambizione articolata d’imbastire un altrettanto complesso paradosso temporale; sotto al titolo di Tiempos Modernos l’esposizione (a cura di Javier Andrés Pérez, Miguel Ángel Marcos Villán, Alejandro Nuevo Gómez) vuole per l’appunto ripensare il significato della svolta occorsa fra XV e XVI secolo, durante il regno di Isabella e Ferdinando, e il senso di quest’eredità nel governo consolidato del nipote Carlo, eletto monarca (e poi imperatore) di un trono finalmente unificato.

Bottega di Donatello (?), “Madonna col Bambino e angeli”, Segorbe (Valencia), Museo de la Catedral

Complice la mancanza di spazi che affligge la struttura, sviluppata lungo il cortile flamboyant del Colegio de San Gregorio, la selezione di opere è riunita nel vicino Palacio de Villena e si apre con la presenza emblematica delle grandi porte intagliate da Gil de Siloé alla fine del Quattrocento proprio per il collegio universitario fondato da Alonso de Burgos: l’immagine è potente, perché ribatte su quella della «soglia», funzione di cui il termine di secolo – col cardine del 1492 – è da sempre stato rivestito nella storia nazionale.

Tuttavia, quello che aspetta il visitatore, al di là dei due battenti in legno socchiusi a inizio visita, col loro vivaio di giocosi putti all’antica smarriti fra cartigli e bronconi, è tutto tranne che un percorso rettificato. L’idea, infatti, è quella di preferire a un principio di sviluppo, che dal Gotico conduca pianamente all’Umanesimo italofilo, il più diffuso concetto di rete, in chiave squisitamente interculturale: così, se il termine «rinascimento» torna soprattutto in catalogo (e in particolare nel testo di Nuevo, ma solo pel tramite di alcuni, accorti discrimini d’etichetta), è nel motivo degli scambi che va individuato il collante delle diverse sale, concepite in fondo come resoconti «paralleli», seppur strette nell’arco diacronico di una sequenza mai spinta oltre l’annus triumphalis del 1530.

Si tratta della ricaduta di una vague d’indagine che, negli ultimi decenni, a partire soprattutto dai mondi anglofono e francofono, ha inteso ricostruire il panorama d’epoca moderna attorno a una prospettiva global e al ripensamento dei canoni manualistici, per mezzo del sabotaggio chirurgico dei portati di una geografia artistica rigidamente incistata nei concetti di «centro» e «periferia». Perfino il titolo della mostra, in questo senso, si presenta come un calco di nuove, più neutre definizioni, ricevute dall’accademia americana (il label di «Early Modern» per unire assieme il Quattro e il Cinquecento).

Tuttavia, lo scenario iberico si presta come campo preferenziale per questo genere di esperimenti, col suo polifonico crogiolo culturale, con la riottosa frammentazione interna e grazie al confronto impattante col concetto stesso di «minoranze»; in una parola – assai dibattuta dalla bibliografia spagnola – con la sua natura di «frontiera», caricatasi di specificità esemplari, estreme nella pur complessa realtà del continente, sul punto di riorientarsi da Levante verso Ponente.

In quest’ottica, ben funzionano nel Palacio de Villena le presenze di alabastri inglesi accanto agli invetriati robbiani, lucidi di bagliori diversi ma non meno baluginanti; come s’accordano poeticamente il ghiribizzo fiero della Vergine michelozziana di Segorbe e la quotidianità ridente della Madonna di Bigarny, convocata dall’Asunción di Ávila. Non meno la passione fantasmatica dell’Ecce Homo, attribuito alla bottega di Fernando Gallego, risponde alle prime fantasie dell’atelier del Bosco, collezionato in Spagna già all’inizio del XVI secolo; mentre il classicismo gergale di un Vasco de la Zarza, col suo Cristo sofferente tagliato in icona, echeggia la parlata aulica, romana della faconda Deposizione di Machuca, una fra le compere più straordinarie opzionate dal museo in anni recenti. Si capisce infatti che a cavallo fra Quattro e Cinquecento in una Spagna ancora divisa fra le corone di Castiglia e Aragona (solidali soltanto nella campagna di conquista contro il sultanato nasride di Granada), il tema focale dovette essere soprattutto quello della «lingua», o meglio delle «lingue», col loro carico di adattamenti e sinonimie, con le ricadute in fatto di comprensioni ed equivoci, col loro valore qualificante e identitario.

In tal senso, l’apparente ecletticità delle opere accolte in mostra ribatte invece su un disegno unitario, coeso, che ha pure il merito di consentire la visione di pezzi spesso nascosti nella smisurata mappa peninsulare, ragione non ultima di una tanto variata tessitura espressiva; di maniera analoga è una chiusa efficace quella sul disegno di Alonso Berruguete, desunto dal profeta Daniele della Volta michelangiolesca e in prestito da Valencia: sanguigna di fattura squisita, più che presentarsi come una semplice copia, offre la testimonianza di cosa potesse essere, per un artista autoctono, provarsi in una traduzione di idee allogene in parole native, secondo effetti di colore e inflessioni originali.