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Monaco, il grande cubo bianco che raffredda il delirio hitleriano

Monaco, il grande cubo bianco che raffredda il delirio hitlerianoMonaco, il «Centro di documentazione sul nazionalsocialismo»

A Monaco, il nuovo «Centro di documentazione sul nazionalsocialismo» Preceduto da polemiche, l’edificio, da poco inaugurato, coglie nel segno come architettura; la museografia, invece, è piatta e anti-emotiva

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 7 giugno 2015

Monaco, aprile 1919. Le truppe prussiane e i corpi liberi di Franz Ritter von Epp reprimono i rivoluzionari che avevano proclamato la Baviera una libera repubblica sovietica. Un giovane austriaco, che al fronte era stato notato per le sue abilità oratorie, su ordine del suo capitano, si infiltra in un partito nazionalsocialista di pochissimi iscritti, fra i cui primi finanziatori è proprio von Epp. Dopo un paio di comizi nelle birrerie, ne assume il comando (febbraio 1920). Dota il partito di un giornale, il Völkischer Beobachter, di un editore (Eher Verlag) e soprattutto di uno squadrone paramilitare, le SA. Il fenomeno non passa inosservato presso i circoli benestanti di Monaco, dove da tempo si discute di superiorità razziale dei tedeschi. Grazie a un amico antisemita, Dietrich Eckart, Hitler viene introdotto presso il ricco editore d’arte Ernst Hanfstaengl e viene a conoscenza delle cospirazioni ordite dalla ‘Società Thule’, che invoca una dittatura fondata sulla razza. Intanto, nelle lezioni universitarie o nelle riviste di Monaco, alcuni professori insistono su concetti come spazio vitale o igiene razziale. Mussolini marcia su Roma (ottobre 1922) e Hitler cerca di cavalcare l’onda: induce alcuni militari controrivoluzionari, come Ernst Röhm e Erich Ludendorff, a tentare un Putsch in una birreria, che però fallisce (8-9 novembre 1923). Il fanatico è già aiutato dall’alto: per buona condotta sconta solo nove mesi di carcere, al netto di una pena che prevedeva cinque anni. Durante la prigionia, le amicizie altolocate si stringono: e i ricchi coniugi Bechstein, proprietari di una ditta di pianoforti e patiti di Wagner, gli regalano una Mercedes (1925). Hitler non può parlare in pubblico, ma frequenta salotti importanti come quello degli editori Hugo e Elsa Bruckmann. Ora è attento alla sua immagine, veicolata in pose marziali e private dal fotografo Heinrich Hoffmann, e pian piano ricostruisce il partito. Alle elezioni presidenziali del 1928, il risultato è scarso (2,6 %). Però un allarmato Thomas Mann, premio Nobel nel ’29, considera ormai Monaco la «città di Hitler»: presto deciderà di non rimettere più piede in città. Arriva la Grande Depressione: il marco crolla e la disoccupazione schizza alle stelle. Nel 1932 i nazisti guadagnano il 37,4 % delle preferenze. Nel ’33, Hitler è eletto cancelliere, con il consenso della vecchia élite di governo, legata al presidente Paul von Hindenburg. I suoi fedelissimi occupano ora posizioni politiche chiave: sono ex-militari come Hermann Göring, avvocati civili con esperienze di polizia politica come Wilhelm Frick (entrambi presenti al Putsch del ’23), studiosi di letteratura tedesca e esperti in propaganda come Joseph Goebbels.
Pannelli retroilluminati che sciorinano una messe interminabile di documenti – foto, video, biografie di carnefici e di vittime, illustrazioni, copertine di giornali, grafici, mappe –, così si riavvolge il filo della storia nel nuovo Centro di documentazione sul nazionalsocialismo(NS-Dokumentationszentrum, aperto dall’1 maggio con la mostra permanente su Monaco e il nazionalsocialismo, catalogo C. H. Beck, a cura di Winfried Nerdinger, pp. 624, euro 38,00). Nel processo di gestazione del centro, non sono mancate le polemiche. La prima direttrice, la storica Irmtrud Wojak, è stata rimossa dal suo incarico dopo due anni. Piccata, dichiarerà allo Spiegel che il centro è pensato «più per la confezione museale del tema che per la ricerca di verità scomode» (2012). La studiosa voleva un istituto dove si indagassero meticolosamente storie di uomini e processi collettivi. Al suo posto è stato chiamato uno specialista di architettura di epoca nazista, e la parte documentaria sui progetti del tempo per Monaco, realizzati o meno, è chiaramente un punto di forza dell’esposizione. Con la sua freddezza analitica, il centro scansa quindi il pericolo dell’emotività, ma genera un effetto da manuale di storia spiattellato sulle pareti. Il notevole sforzo di ricerca prodotto è mortificato da una museografia piatta, mal digeribile per via della monotonia dei pannelli. Sotto il profilo dell’architettura e dell’urbanistica, l’edificio vince invece in pieno la sua scommessa. Il white cube di cinque piani, progettato dagli architetti dello studio berlinese Georg, Scheel e Wetzel (2009-2015), è schiarito da finestre a feritoia, disposte irregolarmente sui quattro lati. Questa scatola candida e discreta occupa il posto del palazzo neoclassico dei Barlow (1828), che dal 1930 era la «casa del partito» di Hitler, nota come ‘Casa marrone’ (Braunes Haus), bombardata dagli alleati e demolita nel 1947. A pochi passi è la Königsplatz, sereno memento di quando a Monaco si sognava la Grecia antica. Questa piazza del tempo di Ludwig I era lo scenario prediletto dei nazisti per le loro parate, e nella memoria collettiva le euritmie solenni di Leo von Klenze sono sempre affollate dal ricordo inquietante delle svastiche. Con due monumenti eretti in memoria dei caduti nel Putsch fallito (Ehrentempel, 1935, demoliti nel ’47) e la pavimentazione in pietra, Hitler si appropriava definitivamente della piazza, che immaginava come una sorta di acropoli tedesca. Il tutto era orchestrato dall’architetto di regime Paul Ludwig Troost e accanto due suoi edifici quasi gemelli esistono ancora: uno è il Führerbau, dove venne dichiarata l’annessione dei Sudeti nel ’39. Con la Liberazione, gli americani scelsero quest’edificio per rieducare i tedeschi alla democrazia: fu sede della Amerika Haus (1948-1957), dove si potevano sfogliare «Life» o i romanzi d’oltreoceano. Ora, fra il porfido e il grigiore, risuonano note: è una Scuola statale di alta formazione musicale e teatrale. Poco più in là, i nazisti demolirono la villa neorinascimentale di Alfred Pringsheim, suocero ebreo di Mann, matematico e grande collezionista di maioliche (1933). Fondarono la sede amministrativa del partito (Verwaltungsbau der NSDAP). Centro di raccolta delle opere d’arte trafugate dai nazisti all’indomani della Liberazione, diviene l’Istituto centrale per la storia dell’arte dal 1946: oggi una delle migliori realtà europee nel campo, forte di una biblioteca e fototeca impareggiabili. Con la sistemazione di calchi di sculture antiche nel cortile, l’edificio è anche un esempio luminoso di riutilizzo poetico dell’architettura nazista. Nell’area compresa fra la ‘Casa marrone’ e la Alte Pinakothek, Hitler intendeva poi piazzare un’enorme cancelleria, mai compiuta. Da poco è stata qui edificata la nuova Scuola di cinema e televisione (2007-2012), che più degli edifici precedenti è un cuore pulsante della vita culturale di Monaco. C’era bisogno di una rottura moderna entro la gabbia di un passato respingente.
Con la morte di Troost (1934), il successore in città è Hermann Giesler, mentre a Berlino il fiduciario era Albert Speer. Hitler dichiara di voler rendere Monaco «capitale dell’arte e del movimento»: nei suoi piani, attraverso tre assi collegati alle autostrade, la città assumeva l’aspetto di un mastodontico reticolo convergente verso Königsplatz. La stazione progettata somiglia a un avveniristico panoptico. Con la costruzione della Haus der Deutschen Kunst (1937, oggi Haus der Kunst), altro catafalco grigio e granitico, anche l’arte viene irregimentata: quella tedesca osannata nelle sale nobili, quella degenerata dei dada, degli astrattisti, degli espressionisti e dei cubisti esposta al ludibrio e sequestrata.
Il centro documenta minuziosamente le persecuzioni di ebrei, rom e omosessuali; le cliniche della morte o le sterilizzazioni forzate per i malati di mente; i campi di concentramento e le deportazioni. E chiude con scelte forti: documentare la sorte penale dei nazisti nel Dopoguerra, spesso leggerissima. La ‘denazificazione’ fu una farsa americana che durò ben poco: in molti riguadagnarono presto i loro incarichi. Un tema che si intreccia con quello delle insorgenze del nazismo dal ’45 a oggi, fra attentati e revanscismo: un fenomeno davanti al quale Monaco non intende abbassare la guardia.

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