In momenti di crisi della memorialistica, almeno per quanto riguarda la cultura artistica romana del secondo Novecento, il libro di Edoardo Monaco Memorie in corso Un architetto racconta (Quodlibet, pp. 410, euro 25,00) ci conferma non solo che è possibile raccontare la memoria ma anche il valore del recupero e della diffusione di questo patrimonio. Senza porsi problema alcuno nell’addentrarsi nell’intimità della famiglia e nelle esperienze personali, di architetto e di uomo, per evocare i molteplici protagonisti di una lunga stagione d’arte e letteratura resa scenario storico e politico, capace di farci comprendere un’epoca e il tanto di un passato riflesso nel presente. E qui, illuminanti, sono la prefazione di Paolo Melis e la postfazione di Jean-Michel Léger, il primo nel sottolineare «uno stile di scrittura fondato sulla spontaneità», il secondo nel mettere in luce le qualità dell’autore pronto a farci vedere l’architettura al di là delle forme che la esprimono.

Gli architetti Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti

Ecco, allora, Edoardo muoversi nella miniera inesauribile dei ricordi, senza cedere al meccanico succedersi degli eventi o alla retorica celebrativa, scavando nel periodo formativo, negli anni di attività e nell’eredità di Vincenzo Monaco, nel sodalizio Monaco-Luccichenti, nelle varie tipologie progettuali e nei programmi imprenditoriali, fino alla cronaca di una reclusione, alla scoperta del borgo etrusco di Ceri e alla valorizzazione di un Castello carico di storia, con il suo giardino pensile, i suoi affreschi sei-settecenteschi, i soffitti lignei dipinti, i pavimenti di cotto e di maioliche colorate blu e marrone. Dove il rapporto con la bellezza, quindi, è sempre presente, magari attraverso una mostra di Victor Pasmore realizzata con la collaborazione dell’amico Valter Rossi e della sua stamperia 2RC. Come non mancò nell’arredamento delle turbonavi Leonardo da Vinci e Michelangelo (Severini, Capogrossi, Campigli, Santomaso), nel Palazzo della Confindustria all’Eur e nel Padiglione Italiano dell’Expo di Osaka (Capogrossi), nella Mostra dell’Agricoltura nel Palazzo dei Congressi all’EUR (Severini), nel Palazzetto dello sport di Chieti (Santoro).

Giuseppe Capogrossi, “Superfice 420”, 1949, collezione Monaco

Parto dalla fine del racconto perché nulla sarebbe stato possibile, a Vincenzo, Pia e Edoardo Monaco (o sarebbe stato del tutto diverso), se gli artisti e i poeti non li avessero quotidianamente nutriti. E non fossero diventati alimento anche per quanti li frequentavano o sostavano nello studio per viverne l’atmosfera. Un ambiente che nel 1952 vedeva un ragazzo di nove anni vendere su un banchetto i propri disegni con i quali poi partecipava anche a un concorso dell’Ambasciata americana, o li pubblicava nel 1953 su «Civiltà delle Macchine». Non è certo un caso se uno dei disegni pubblicati portava il titolo Sogno e corrispondeva a un foglio di Filippo, il figlio adottivo di Sinisgalli, con il quale era sceso nel 1947 a Montemurro, il paese natio del poeta lucano che proprio nell’anno in cui usciva I nuovi Campi Elisi tornava nella dolce provincia dell’Agri. L’ingegner Sinisgalli non abitava in una palazzina di Monaco-Luccichenti ai Parioli? In quegli anni, la solidarietà non si esprimeva dividendosi solo le donne, le sigarette e la birra, come scriveva Leonardo nell’Ode a Lucio Fontana. E non era sempre Sinisgalli a parlare con Vincenzo Monaco del dadaismo, della relazione tra poesia e architettura, e di quanto ciò fosse presente nella poesia di Leopardi alla cui modernità aveva dedicato anche un libro?

Corpora è il primo artista che compare nella lunga carrellata di Edoardo, così come l’architetto Luigi Moretti e lo scrittore Gabriel García Márquez, fosse pure per una citazione («La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla»). Edoardo era troppo piccolo per ricordare che nel 1954 Márquez era a Roma per seguire i corsi di regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia e scrivere della città per il giornale colombiano El Espectador. Mangiava nella Fiaschetteria Beltramme di via della Croce, dove vedeva gli amici dello studio Monaco-Luccichenti, e correva in Vespa sui lungotevere inseguendo quei fantasmi della memoria con i quali costruirà poi i suoi romanzi.

Il caffè Rosati di via Veneto prima e di piazza del Popolo dopo, il «baretto» di via Condotti con i pannelli di Severini e Franchina, la Libreria Rossetti in via Veneto, punti d’incontro di diverse generazioni di artisti e letterati, richiamano i nomi e i volti di Fazzini e il suo studio sempre aperto nel cortile di via Margutta, Tamburi che è in partenza per Parigi e Savelli per New York, Turcato perduto tra i suoi Reticoli, Severini e il risotto alla milanese in casa Monaco («quanto è bello l’accostamento del giallo zafferano con quel blu dei piatti»), Cagli e i tappi di sughero colorati buoni per le piccole sculture subito realizzate da Edoardo, Rotella e le sue poesie epistaltiche, Capogrossi che nel 1950 ha trovato il suo vocabolario personale formalizzato in un libero linguaggio segnico subito stroncato da Alfredo Mezio su «Il Mondo» in occasione della mostra alla Galleria del Secolo, Consagra e la frontalità della scultura, Franchina e la sua estetica delle Fuoriserie, De Libero e la storia della Galleria della Cometa, Flaiano e la boutade come stimolo al dialogo, Ungaretti e Pannunzio a discutere l’ultima fotografia di Paolo Di Paolo uscita su «Il Mondo», Moravia e le dispute sul film Femmine folli di Erich von Stroheim, per finire con il giovane Michele Parrella, la sua Jaguar e le grandi sciarpe che dovevano stupire le ragazze sedute da Rosati.

Non ci sono Bartolini e Bartoli, che pure erano al centro di tutte le discussioni, nei ricordi di Edoardo. Maccari, Mafai e il suo amico di sempre, Maurizio Sacripanti, sono nominati solo di passaggio. La memoria è condivisione, perciò è selettiva, recupera il passato ma si fa fluttuante quando trascrive esperienze collettive mantenendo esigenze intimistiche o deve affrontare un cumulo di realtà da testimoniare, che non è la stessa cosa che registrare fatti: i tanti passaggi da una casa all’altra, le estati a Santa Marinella, le domeniche pomeriggio e le cene dei genitori con Costanza Menney e Capogrossi, Argan e Anna Maria Mazzucchelli, Gualtieri di San Lazzaro e Matta, Ungaretti e Michaux, Palma Bucarelli, Victor Brauner e Christian Zervos, come a dire il mondo di «XX Siècle» e dei «Cahiers d’Art», di tutte le avanguardie di quel mezzo secolo del Novecento che Vincenzo Monaco allineava sulle pareti della sua casa: oggi Edoardo vi ritrova tutti gli sguardi di chi in quelle stanze ha sostato assimilandone l’energia. La stessa che traspariva dalle pagine di «Art d’Aujourd’hui» del gennaio 1952 dedicato a Italie 1951, con la copertina di Munari. Tanti nomi, ognuno concentrato su tecniche espressive inedite (da Fontana a Burri, da Scialoja a Vedova), e tutti interessati all’architettura che si stava sviluppando in quel dopoguerra così vivo, anche nell’ambito del collezionismo che, complice Amedeo Luccichenti, annoverava i Pieraccini, gli Astaldi, Arturo Osio e Folco Quilici.

L’incanto, che tiene prigioniere le cose, si scioglie nelle belle pagine che Edoardo dedica alla madre. Non esiste, purtroppo, una monografia su Pia Bernini, che dia conto della grande passione che, visto l’alunnato con Corpora, le frequentazioni e l’impegno, fino alla fine dei suoi giorni, non la relegava certo tra le pittrici della domenica. Da quel poco che mi è passato sotto gli occhi, sono sicuro che attraverso quei dipinti, e lo stesso arazzo preparato per la Leonardo da Vinci, lo spaccato di un’epoca e il suo orizzonte di valori, guardati con l’introspezione di una donna sensibile, alla luce delle risonanze emozionali e affettive, aggiungerebbero, come ha scritto Antonio Pizzuto, vita alla vita di tutti noi.