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Monaco, con il Rococò bavarese l’arte sacra si fa tripudio formalista

Monaco, con il Rococò bavarese l’arte sacra si fa tripudio formalistaIgnaz Günther, «Annunciazione», part.,Weyarn, ex-chiesa capitolare dei Ss. Pietro e Paolo

Alla Kunsthalle di Monaco, il Settecento da Asam a Guenther Statue policrome dal territorio per riaprire un capitolo stordente dell’arte europea: il cattolicesimo «al servizio» dell’estro decorativo

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 8 febbraio 2015

Perché non ricorrere, per una buona volta, al vasto repertorio lessicale dell’elogio, caro al giornalismo d’arte internazionale, con le sue abusate esclamazioni come compelling, incontournable o once-in-a-lifetime, per una mostra come Mit Leib und Seele (che vuol dire ‘Anima e corpo’) Münchner Rokoko von Asam bis Günther – alla Kunsthalle fino al 12 aprile, a cura di Roger Diederen e Cristoph Kürzeder (catalogo Sieveking, pp. 416, euro 49,90)? Tanto più che sinora, chiaramente a eccezione dei tedeschi, a questa retrospettiva corale sul secolo d’oro dell’arte bavarese non è stata concessa alcuna attenzione mediatica. Possibile che a suo sfavore giochi la scarsa familiarità con uno stile, purtroppo, poco amato e compreso, ma non per questo meno prodigioso: il rococò.

A Monaco, tutto comincia con due fratelli, gli Asam: Cosma Damiano (1686-1739) e Egidio Quirino (1692-1750). Il maggiore è il più scaltro e promettente dei due: studia all’Accademia di San Luca e, dopo un tirocinio di due anni, vince addirittura il primo premio al concorso di pittura del 1713. Dai disegni venuti da Roma e da un dipinto eseguito al ritorno si capisce come assimilasse i fondamenti del classicismo (Raffaello, Veronese, Carracci), in quel tempo codificato in termini insuperabili da Carlo Maratta, che fu suo mentore. In patria Cosma insegna che le cupole possono essere sfondate da glorie, quadrature e scorci – e le soluzioni escogitate a Parma, due secoli prima dal Correggio, sono passibili di esportazione: a Innsbruck, per esempio, nel Duomo (1722-’23). O dimostra che le facciate e gli altari seducono di più se le linee si contorcono a proprio piacimento. Succede anche che a Monaco da Parigi arrivano non solo repertori colmi di incisioni, dove si squadernano surtout da tavola, ideati magari per nobili inglesi di primo pelo, ma anche architetti in persona, e di genio, come François Cuvillés (1695-1768), che nel giro di pochi anni progetta padiglioni di caccia nelle residenze estive (Amalienburg) e teatri nel palazzo di città (Residenz).

Una cultura, armata di specchio e di orpello, inizia a insinuarsi entro la vecchia sintassi delle estasi barocche, fino a sopprimerne in uno scorrazzo di libertà ogni retorica residua. Al vertice del processo stanno gli Asam e la loro chiesa di San Giovanni Nepomuceno (1733-’46), loro perché sorge proprio accanto alla casa dei fratelli, con la facciata scolpita anch’essa con esuberanza, e quindi ribattezzata Asamkirche. In mostra si ammirano le porte lignee, dove sono intagliati due Angeli paffuti, di Egidio, pronti ad accoglierti benevolmente nel regno dell’artificio. Nell’Autoritratto di Cosma Damiano Asam coi fratelli, il pittore laureato occupa ostentatamente tutta la scena e Egidio rimane schiacciato sulla sinistra. Ma al minore in realtà non spetta un posto secondario. È un inventore di razza, che si esalta quando disegna una cappella rotonda, tutta scale a chiocciola, grate, telamoni giocosi, colonne tortili e grazie varie, immaginate a profusione, in scultura e pittura. Lo si vede anche nel progetto per l’Ostensorio della chiesa, dove una Vergine molto spaventata è appena rassicurata da un Dio Padre che spunta troppo all’improvviso. Sono arditezze smorzate da accorti riassestamenti spaziali, quando il disegno passa nelle mani del sapiente orafo Johann Christoph Steinbacher (1719-’49), che fabbrica un arredo tutto screziato di perle e di gemme.

Risponde invece al nome di Johann Baptist Straub (1704-’84) l’artista principale della generazione ‘di mezzo’ del rococò bavarese. Di altro tipo è la sua formazione: non a Roma, ma a Vienna, impara l’arte. E quando torna, la posizione che occupa è tutta di privilegio: è nominato artista di corte dal principe-elettore Carlo di Baviera nel 1737. Ma la sua esistenza non trascorre solamente fra castelli e carri festivi, gli si chiede anche di adornare di sculture gli altari delle chiese più fastose del circondario. Spetta quindi a lui il conio di uno stile diffuso su scala regionale e la sua gamma di affetti è tanto variata che al sorriso può seguire subito, nell’angelo dopo, la meditazione su tristi fatti. A lui è concessa la sala più sofisticata della mostra, dove la tavolozza-pastello di una chiesa – con i rosa, i verdi acqua, gli azzurri chiari, tantissimo bianco e oro e argento a profusione – è ripresa nell’allestimento. Ma i santi e i putti di Straub, normalmente appollaiati in cima a baldacchini sgretolati, nelle chiese sono troppo in alto per comunicare col fedele. Garantito è l’effetto di tripudio dunque, ma pizzicando meno la corda «Propaganda fide» che quella, pazza, della pura forma; sperimentando come le linee – scheggiate o morbide – potessero andare più a caccia del caos che servire a serrare i ranghi dell’ordine.

Quando arriva il turno di Ignaz Günther (1725-’75), che di Straub è allievo, le possibilità espressive erano già state talmente sondate che non restava altra via salvo l’estremismo. Allora procede in senso doppio: da un lato, accresce il tasso di naturalismo; ma gli effetti di verità, sorprendenti a chi oggi si educa con l’iper-reale, sembrano più dovuti a virtuosismo tecnico che a premeditazione estetica. Dall’altro lato, formula in termini spaziali le sue proposte: e quando maestro e allievo si trovano a concorso, come per gli altari di San Michele a Berg-am-Laim (1760), se a Straub basta immaginare un Dio vincente, coronato dai raggi, Günther non si esime dal lasciarlo fluttuare nel vuoto. Non stupisce perciò che i committenti preferissero il progetto del maestro, che fra l’altro sopravvive all’allievo, più giovane di vent’anni. Anche orefici e argentieri dovevano trovarsi in imbarazzo al momento di tradurre i modelli di questi eccezionali intagliatori – tutta la scultura di cui stiamo parlando è rigorosamente in legno, e molto spesso dipinta o dorata fino a sfigurarne volumi e sottigliezze. I busti di Evangelisti in argento di Joseph Friedrich I Canzler (1710-’82), accanto alla serie di Günther, non reggono al confronto; se la cava meglio il collega Ignaz Franzowitz (1765-1808), che intuisce che il segreto sta nel replicare un ritmo fra il molleggiato e il febbrile.

Un genietto di provincia è invece Christian Jorhan (1727-1804): e chi crede nel valore estetico di allucinazioni e contorsioni oniriche, può adottare questo scultore – e gli stravolgimenti facciali dei suoi Evangelisti – fra i propri beniamini. Pratica anche una simpatia da semplicione, quando inventa un cherubino che copre lo sbadiglio con un’ala. È a questo punto che il linguaggio rococò passa, senza complicazioni di sorta, da un espressionismo sfilacciato e arcano al registro popolaresco. È merito infatti di un ceramista svizzero, Franz Anton Bustelli (1723-’63), chiamato da Massimiliano III a dirigere le prime fabbriche di porcellana di Monaco, se il pathos di un santo di Günther transita nel visino divertito di una contadinella o di una maschera beffata della Commedia dell’arte. Ne nasce un genere fortunatissimo, ai tempi di pertinenza aristocratica, e successivamente entrato in sfere collezionistiche socialmente più allargate, tanto che non ricorda male chi associa il nome di Bustelli ai ninnoli della credenza.

Anche Franz Xaver Schmädl (1705-’77) è presente all’appello: ed è un piacere conoscere la sua pratica corsara di panneggi, da cui però spuntano come boccioli dei volti serafici. Ha scolpito soprattutto nella parrocchiale di Rottenbuch, probabilmente l’insieme più capriccioso della galassia di chiese di provincia. Un accorgimento sensato di questa mostra – inimmaginabile senza l’ausilio della diocesi, prestatrice di un’ampia maggioranza di opere – è infatti documentare con i touch-screen la collocazione di ciò che viene esposto, e gli interni non patiranno le estrazioni, visto l’horror vacui. I titoli di coda sono affidati a Roman Anton Boos (1730-1810) ma è troppo tardi: costui oramai appartiene alla nuova temperie neoclassica. Per quanto riguarda la colonna sonora, normalmente non sono auspicabili le musiche in sala: distraggono. Ma poiché proprio Mozart ha composto una sonata a Monaco (la K 284, nel 1775), allora tanto vale ascoltarla, insieme a una scelta di pochi altri brani d’epoca, come hanno finemente proposto i curatori. Ascoltatela anche voi, nell’esecuzione di Maria João Pires: può farvi sentire il profumo di un’epoca – impresa rara, ma riuscita, a chi ha confezionato questa mostra.

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