Momigliano, esilio e destini, dialogo fecondo con De Sanctis
Epistolari del secolo Entrambi rimossi dall’insegnamento: Gaetano, il maestro, per aver detto di no al fascismo; Arnaldo, giovanissimo professore di storia romana, per le leggi razziali. «Carteggio 1930-1955», ed. Tored
Epistolari del secolo Entrambi rimossi dall’insegnamento: Gaetano, il maestro, per aver detto di no al fascismo; Arnaldo, giovanissimo professore di storia romana, per le leggi razziali. «Carteggio 1930-1955», ed. Tored
Lo studio dei carteggi è spesso una ricca miniera. Se poi i corrispondenti sono figure speciali, e specialissime le circostanze del loro epistolario, il tutto richiede particolari cure. Come è avvenuto per il Carteggio 1930-1955 tra Gaetano De Sanctis e Arnaldo Momigliano, ora pubblicato a cura di Leandro Polverini (Tored, pp. 148, € 30,00): ben più che il dialogo tra un autorevole storico del mondo greco-romano e il suo migliore allievo, destinato a diventare un’autorità mondiale nel settore degli studi classici. Il maestro, nato nel 1870, decadde dall’insegnamento nel 1931 per aver rifiutato, tra i pochissimi, il giuramento di fedeltà al fascismo. L’allievo, classe 1908, divenuto giovanissimo professore di storia romana nella sua alma mater Torino, decadde dall’insegnamento nel 1938 a seguito delle leggi razziste volute dal fascismo. A entrambi la patria, in cui avevano creduto, rese impossibile svolgere il lavoro di studio e ricerca di altissimo livello.
All’uno toccò l’esilio culturale in patria, all’altro l’esilio dalla patria. Il tutto era ben chiaro ai protagonisti: «Lei che ha affrontato deliberatamente ciò che a me accadde per un fato non ricercato, seppur non sfuggito», scrisse Momigliano a De Sanctis, alla vigilia di lasciare l’Italia, nel marzo del ’39. E poi la guerra, e la ripresa dello scambio, con il maestro cieco e infermo e l’allievo ancora, e poi definitivamente, lontano dall’Italia. Tra i due un rapporto personale stretto, pur entro una grande discrezione di toni. Per il fedele allievo, De Sanctis si pose (o fu) un secondo padre, entro un rapporto fatto di rispetto e anche di scambi franchi. In tema di religione, per esempio, al maestro fervente cattolico il ventiduenne allievo, così scriveva: «Sono ben lungi dal contestarLe che Ella sia più ebreo di me. Se stasera fossi in vena di malignità aggiungerei perfino che uno dei caratteri contraddistintivi degli ebrei è il loro antisemitismo!». Una risposta che, nella preterizione, cela un Witz non innocente e che mostra una personalità inscalfibile dalle suggestioni di fede (il rapporto con l’ebraismo fu assai complesso: dell’esito finale parlano le Pagine ebraiche, ultima voce di Momigliano in vita). Nel 1938, dopo la perdita del lavoro e la fine di ogni illusione, il giovane storico duramente si esprimeva sulla fede nella provvidenza, saldissima nel maestro, pur tra dure prove: «tutto perderebbe significato se la prònoia esistesse (senza contare che codesta prònoia, sia detto con la dovuta deferenza, comincerebbe a prendersi delle responsabilità un poco eccessive)».
L’epistolario rende conto dunque di fasi tremende della storia italiana, vissute da acutissimi testimoni. Licenziato dall’università, Momigliano sentì, forte, la solidarietà degli studenti, ma lo ferì il silenzio dei colleghi, che «tacciono invece, solenni come senatori romani all’irruzione dei Galli». Difficile dosare, oggi, quanto pesassero in quei professori torinesi il conformismo, la paura, l’indifferenza. Nei mesi successivi, dopo affannosi tentativi di trovare sistemazione all’estero, per Momigliano uno spiraglio s’aprì infine nel Regno Unito. Non sempre, certo, i toni del carteggio sono così drammatici. Nelle lettere degli anni di pace vi sono affettuosità familiari (e scritti delle rispettive consorti entrano nel carteggio), notizie di studi e attività. Molte discussioni, tra Roma e Torino, sono legate al comune lavoro nel grande cantiere della «Treccani», di cui De Sanctis dirigeva la sezione di Antichità classiche.
Ampio spazio, comprensibilmente, trovano vicende universitarie e giudizi su persone. Con qualche sfasatura tra il pubblico e il privato. Il grecista torinese Angelo Taccone (1878-1952), da Momigliano inizialmente individuato come relatore di tesi, è oggetto di condiviso discredito, compreso un gioco verbale. Ogni attività poco significativa per la scienza, ogni divulgazione, è detta un «tacconeggiare», arcaismo cruscante per «rappezzare»: fu certo necessaria la diplomazia torinese, a Momigliano, per pubblicare talvolta sul «Mondo classico», la rivistina del Taccone che aveva suscitato l’ironia di Pasquali. Si parla, con giudizi interessanti, pure di Croce e Gentile: a rimarcare la loro funzione culturale e influenza materiale nella vita italiana del tempo. Nel dopoguerra, si trova Momigliano dichiarare al maestro «amicizia e stima profonda» per Santo Mazzarino, in concomitanza con l’uscita sulla «Rivista Storica Italiana» del 1948 della celebre stroncatura di Tra Oriente e Occidente: «Prima si fanno delle congetture non molto probabili, e poi si elevano a drammi spirituali». Coscienza di storico pensoso del metodo o volontà di attaccare un collega più giovane e già temibile?
Nelle lettere si leggono i nomi di altri studiosi, e di allievi di De Sanctis come Mario Attilio Levi o Piero Treves, non sempre trattati da Momigliano come amici. Il maestro, per parte sua, non taceva la propria delusione per le scelte di altri allievi maggiori (Luigi Pareti e Aldo Ferrabino) ormai sfuggiti alla sua influenza metodica, morale e politica. L’esilio e poi la guerra mutarono questi orizzonti per sempre. Mentre le lettere diradavano, per difficoltà di recapito e smarrimento di corrispondenza, le richieste di notizie divenivano inquiete ricerche sul destino di questo e quello, e talora con risvolti tragici (la sorte dell’epigrafista Mario Segre, dei genitori di Momigliano).
Già pubblicata anni or sono, e molto notevole, la lettera in cui De Sanctis riferiva all’allievo lontano la situazione dell’Italia liberata a metà del 1944, con dettagli sull’attività di istituzioni e su ricerche comunque condotte pur nella tempesta di guerra: e si parla assai della torinese «Rivista di Filologia e Istruzione Classica», condiretta da De Sanctis. La lettera è testimonianza di un progetto di rinascita politico-culturale e bilancio di un’epoca conclusa. Affiora anche il timore che nel dopoguerra «la giusta avversione alla montatura della romanità» travolgesse «il giusto rispetto e culto di essa». A lungo incerto, nel ’47, se tornare all’insegnamento a Torino o Roma, e se accettare in Napoli la direzione dell’Istituto per gli studi storici creato da Croce, Momigliano rimase infine all’estero. Ma il carteggio con il vecchio maestro, ormai del tutto dipendente da «segretari» per proseguire con tenacia gli studi e le pubblicazioni, continuò, anche come dialogo scientifico. L’eredità di De Sanctis in Italia sarebbe stata gestita a Roma da un altro, devoto allievo, mentre Momigliano avrebbe esercitato influenza da lontano, attraverso la promozione di collane e pubblicazioni e tramite i celebri seminari pisani.
A fronte di personalità ricche e complesse e di momenti delicatissimi della storia novecentesca, il curatore del carteggio, forte di una conoscenza molto approfondita del milieu, fornisce con grande sobrietà al lettore i riferimenti e gli strumenti, senza giudicare. Una lezione di metodo, degna di due grandi storici del Novecento, còlti qui nel loro decennale dialogo.
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