Molteplicità, artistiche e di vita, in movimento
MOSTRE A Merano la mostra «Vielheit. Storie dalla società post-migrante», visitabile fino al 24 settembre
MOSTRE A Merano la mostra «Vielheit. Storie dalla società post-migrante», visitabile fino al 24 settembre
Da qualche anno Jörn Schafaff, con un gruppo di ricercatori, artisti, studiosi e attivisti, fa parte del progetto «Beyond Migrations» (Al di là delle migrazioni) e studia la molteplicità degli effetti delle migrazioni nelle varie aree del mondo. Conoscerne le conseguenze linguistiche, culturali, artistiche, sociali è ormai una priorità, cercare di capire come sia la nuova vita di chi è arrivato (quando si arriva) ma anche come cambi la vita di chi accoglie e da quali nuovi e forti influssi sia pervasa.
Qui nasce l’idea di Vielheit. Storie dalla società post-migrante (a cura di Jörn Schafaff, Kunst Meran Merano Arte, fino al 24 settembre 2023), collage di storie individuali e collettive come quella di Sadjo Sow arrivato a Merano dal Mali. Ci dice «Vengo da Gao, da una famiglia di contadini, coltivavamo mais e arachidi – il «tiga-tegue» è uno dei piatti maliani più conosciuti: riso condito con salsa di arachidi – e quando ero piccolo avevamo una mucca e delle capre». È grande la distanza che c’è fra ciò che in lui evoca anche soltanto il nominare quei luoghi (d’origine) e il nostro sguardo vacuo che invece si orienta solo quando localizza e visualizza quella regione nel nord-est del Mali, caldissima e già sub-sahariana, intrisa di guerra e integralismo islamico fin dal 2012 (presenti, oltre alla brigata Wagner, anche il Gruppo a Sostegno dell’Islam e dei Musulmani, branca maliana di al Qaeda e lo Stato Islamico nel Grande Sahara). «Un giorno sono partito, verso nord, Algeria poi Libia poi Italia e sono sbarcato ma no, non so se era Calabria o Sicilia, e poi sono arrivato all’Hotel Alpi a Bolzano. La cosa più strana è stata abituarsi alla fretta. Da noi, quando tutti vanno di fretta, vuol dire che qualcosa non va, che sta succedendo qualcosa di grave, Mi sono dovuto invece abituare ad una “fretta” diversa, normale».
LA STORIA DI SADJO la ascolti seduto sulla pedana concepita da Rikrit Tiravanija (Untitled 2023 (neighbours) ma basta spostarsi per ascoltare quella di Berna – ragazza albanese che dice di non sapere fare il «burek» – o quella di Salvatore che da Caserta arriva a Dubai e poi a Merano, dove fa il cuoco. In Inventur – Metzstrasse 11, del regista serbo Želimir Žilnik (1975), gli abitanti di un palazzo scendono – uno per volta – le scale condominiali e sostano brevemente su un pianerottolo, presentandosi: sono tutti gastarbeiter arrivati a Monaco da Grecia, Italia e Turchia per lavorare.
Pinar Ogrenci nata a Van in Kurdistan, segue, ma varia ed inevitabilmente aggiorna – siamo nel 2021 – l’esempio di Žilnik. In Inventur 2021 fa parlare – ma solo come e quanto vogliono – gli abitanti di Chemnitz, ex Karl-Marx-Stadt in Sassonia: famiglie curde partite dal distretto di Derik (a sud di Diyarbakır e a pochissimi chilometri dal confine siriano) passate poi da Kiziltepe, Izmir, e attraverso la Romania, Hannover e infine Berlino (viaggi lunghi e faticosi e per fortuna i bambini ti parlano del loro football club preferito, lì in Germania) ma anche un giovane padre palestinese che dalla striscia di Gaza arriva qui si sposa e lavora come traduttore come anche Antje, nata a Chemnitz che per anni vive non ben accolta nella Germania dell’Ovest («molti pregiudizi su chi veniva dalla Germania dell’Est e dalla Sassonia in particolare») tornata a Chemnitz, felice. E poi iraniani, indonesiani, giordani, soprattutto tanti curdi.
UN UOMO ARRIVA in un piccolo appartamento spoglio e dignitoso. È solo, ha una valigia, va sul balcone e guarda fuori. Così inizia The song (2022), il lavoro di Bani Abidi, artista pakistana che esplora la pesantezza del silenzio estraneo e l’importanza di ricostruire la memoria di suoni familiari. Il ricordo del rumore caotico (e della luce dorata) delle strade di Damasco crea nell’uomo un gran vuoto interiore che trova una cassa di risonanza nella luce berlinese fredda e tersa e nella quiete di un quartiere periferico. Allora lui inizia a sperimentare i rumori di tanti oggetti/utensili che anche mette in moto – e il pensiero va ai piccoli ed elaborati marchingegni cinetici e sonori di The way things go di Fischli e Weiss – li assembla e li aziona fino a che, intorno a sè, ha una architettura sonora conosciuta e familiare che non è poi tanto lontana – dice Bani Abidi – dal soundcloud che quasi tutti noi abbiamo ormai mentre ci spostiamo, quelle specie di bolle sonore che proteggono e creano emozioni soltanto nostre.
RICREARE AMBIENTI, questa volta non sonori ma microarchitettonici è quello che fa Ecaterina Stefanescu che, in Rooms (2022), ricostruisce, della dimensione migratoria, ambienti della quotidianità come supermercati e piccoli negozi. Scopre a Berlino un piccolo supermercato rumeno dove fa amicizia con la cassiera e con un cliente, decide di riprodurne lo spazio usando, secondo la sua formazione da architetto, la modellistica. Rinascono così spazi miniaturizzati ai quali il pubblico accede (solo con gli occhi) dall’alto, salendo un gradino e lei al lavoro è ipnotizzante: lunghe unghie blu che con le pinze raccolgono microforme ritagliate di minuscoli cibi in carta colorata.
Li appoggia incollandoli uno sull’altro con estrema precisione ed ecco scaffali che si riempiono di paprica arrostita, barbabietole e anguria in salamoia, tavole da pranzo con sopra la tovaglia dai motivi balcanici rossi, fucsia e bluette col verde acido. Insomma, sapori, profumi e colori di casa. Memorie sonore, memorie visive ed olfattive ed infine la memoria ricamata delle donne bengalesi alle quali l’artista indiano Pradip Das (Calcutta) affida l’esecuzione del magnifico Golden Wall II (2022), un muro di stoffa d’oro su cui loro liberamente hanno potuto «scrivere» i loro ricordi in un grande mix di vecchio e nuovo, di contemporaneità e mitologia antica, cibo, armi o giochi da tavolo. Si può pensare forse anche ai Tutto boettiani ma qui le immagini cadono in un mare d’oro, tranquillo e rarefatto.
SONO I RICORDI di quelli che, alla fine degli anni quaranta a causa della grande carestia, dal Bengala orientale (oggi Bangladesh) si riversano a Calcutta, capitale del Bengala occidentale. «Non ho dato nessuna indicazione. Ho solo detto loro di scrivere qui le loro golden memories e loro l’hanno fatto: un grande pesce che ne contiene uno piccolo, simbolo della madre col bambino e ancora pezzi di un pesce disposti su un vassoio o palloncini colorati che volano accanto ad una fetta d’anguria e ad una pistola» dice Pradip Das. «I miei antenati vengono da quello che è oggi il Bangladesh ed il pesce è centrale nella nostra cultura bengali».
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