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Mo Yan invita al pasto crudele

Mo Yan invita al pasto crudele«Tattoo II», 1994 – Qiu Zhijie

Romanzi Scritto all'indomani della strage di Tian'An Men, «Il paese dell'alcol» (Einaudi) è una satira feroce, che tra banchetti cannibalici e furori dionisiaci si avvita in una lingua lussureggiante

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 10 gennaio 2016

Si racconta che Mo Yan cominciò a scrivere Il Paese dell’alcol (appena uscito da Einaudi, per la traduzione di Silvia Calamandrei e la cura di Maria Rita Masci, pp. 376, euro 21,00) in preda all’indignazione, subito dopo la tragedia di Tian’an men, che lasciò sui viali alberati e tra i vicoli di Pechino i corpi esanimi di moltissimi giovani manifestanti. A loro e a questo insano «banchetto» della madre patria su anime insorte e corpi straziati, che come un moderno Crono divora i propri figli, sarebbe dedicata l’allegoria romanzesca dipinta di noir, ambientata in un distretto rurale della Cina popolare.

L’immagine brutale del cannibalismo non è nuova alla letteratura cinese: in una poesia del 2003 contenuta in Elegie del Quattro giugno, Liu Xiaobo – che vinse il Nobel per la pace – scriveva: «Seguì il mercimonio/Del sangue ripulito dal denaro/Dei cadaveri scuoiati/Che s’univano alla marcia del dispotismo/La celebrazione iniziata con un bagno di sangue finisce con i resti del banchetto/di carne umana.»

Ma, ben prima, di simili banchetti parlò il grande scrittore Lu Xun (morto nel 1936) al quale più volte Mo Yan si richiama esplicitamente nel corso del romanzo.

Un mercato orrorifico di bambini allevati per nutrire le gole insaziabili di amministratori malvagi sarebbe dunque l’oggetto della denuncia trasfigurata di Mo Yan, un evento che ancora investe della sua ombra la storia contemporanea cinese. Il romanzo venne poi rivisto e riedito con due finali diversi, di cui quello completo figura solo nell’edizione taiwanese del 1992.

Il sarcastico affresco, raffigura dunque funzionari dediti a perverse delizie enogastronomiche in una Cina bulimica e sfrenata nei consumi e nei soprusi, intercalando graffi narrativi tratti sia dalla tradizione fantastica cinese sia da una visione postmoderna della letteratura, fatta di metalessi (un’alterazione dei diversi piani narrativi che mette in scena l’intrusione nei rispettivi mondi del lettore, dell’autore, del narratore e dei personaggi), riferimenti intertestuali, episodi interpolati, narratori mutevoli, tutti elementi che attingono ampiamente alla tradizione aneddotica del romanzo cinese e al dispositivo del cantastorie.

La trama, costruita su una struttura quadripartita e transgenerica, dà luogo a una sinfonia in quattro movimenti: la detective story, fondata sull’inchiesta svolta dall’ispettore Ding Gou’er nella periferica municipalità di Jiuguo (Paese dell’alcol) di cui l’autore sfrutta alcuni stilemi per poi smentirli e renderli più sbiaditi; il romanzo epistolare, costituito dalle lettere dello stesse Mo Yan , fattosi personaggio del suo romanzo, e di Li Yidou, un dottorando in miscelazione dell’alcol di Jiuguo nonché aspirante scrittore, che introduce una dimensione metanarrativa in cui Mo Yan accenna ripetutamente al suo romanzo in corso di stesura; e infine, la cornice narrativa, che ingloba in nove dei dieci capitoli altrettanti racconti sottoposti dal giovane Li Yidou al maestro Mo Yan, vergati ognuno in uno stile diverso, dal realismo socialista, al racconto fantastico classico, fino alla letteratura commercial-celebrativa.

I quattro movimenti sono intrecciati al punto che, in un continuo sovrapporsi tra realtà e sogno, allucinazione e denuncia, viene man mano tessuta sotto gli occhi del lettore una tela sempre più complessa e intrigante, fatta di rimandi inter e intratestuali: personaggi reali o fittizi sconfinano tra i vari sottogeneri mentre Il Paese dell’alcol traspare dalla tela come potente allegoria della Cina di oggi, così come era allegoria della Cina di ieri il villaggio dove era ambientato il racconto «Diario di un pazzo» (del 1918) di Lu Xun, al quale il romanzo di Mo Yan esplicitamente si ispira: lo fa riprendendo, appunto, la celebre metafora del «cannibalismo» perpetrato da un sistema patriarcale che per secoli si è «cibato di carne umana», soffocando e sfruttando ogni istanza individualistica. Ma mentre il racconto di Lu Xun mostra, nel disperato appello: «salvate i bambini!», almeno un elemento di illuminata utopia all’inizio del fosco Novecento cinese, nel Paese dell’alcol l’ispettore di polizia incaricato di verificare l’attendibilità di un’accusa di cannibalismo nella provincia cinese svela un tessuto sociale avvezzo al più grottesco edonismo, e intriso di una violenza alla quale nemmeno ai bambini è dato sfuggire.
Anzi, nel periferico distretto è proprio su di loro che si accanisce l’innaturale sfrenatezza dei popolani, le cui ragioni sono per giunta fondate su una gratuita ostentazione del lusso e su una mostruosa ghiottoneria.

Una denuncia anonima, infatti, rivela come presso le più alte sfere dirigenziali di Jiuguo si pratichino sontuosi banchetti che portano la raffinata civiltà culinaria cinese, già abituata alle più sottili crudeltà per la soddisfazione del palato (si mangiano palmi d’orso e nidi di rondine), a vette ben più inconfessabili, il tutto grazie a un senso di onnipotenza del potere pubblico di nietzscheana memoria.

Ed è durante uno di questi infernali banchetti a base di carne di bambino che Ding Gou’er, ispettore della Procura suprema, invece di smascherare e punire il crimine, ottenebrato dall’alcol – l’ubriachezza è tema portante di tutto il romanzo – smarrisce la propria coscienza, che, come una «farfalla multicolore» si distacca letteralmente dal corpo, abbandonandolo senza aver appurato l’autenticità dell’accusa. Sul punto di rifiutare il macabro festino, Ding viene convinto dai suoi ospiti del fatto che la pietanza è confezionata in modo da somigliare perfettamente a un bambino: quale più azzeccata immagine per suggerire la difficoltà umana nel distinguere il vero dal falso, il bene dal male?
In linea con la tradizione narrativa cinese, che trova uno dei suoi principi fondamentali nell’ambiguità del rapporto tra realtà e finzione, si dubita a ogni istante del racconto stesso, che spinge il lettore insieme a Ding Gou’er in un labirinto onirico e saturo di affabulazione, costringendolo a chiedersi: «ad avere valore è ciò che sembra falso ma è vero, o ciò che sembra vero ed è falso? L’autore stesso si perde nella sua complessa costruzione metalettica: già interlocutore nello scambio epistolare con il dottorando, Mo Yan entra nel romanzo all’ultimo capitolo sostituendosi al suo protagonista e interagendo coi personaggi da lui stesso creati.

Lo scrittore arriva dunque a Jiuguo, accolto con tutti gli onori e come Ding Gou’er cade irretito nella trama dei locali funzionari corrotti che, per salvarsi da indagini (poliziesche) e condanne (letterarie) non fanno altro che render complici dei propri misfatti quelli che ne erano stati gli accusatori. Vittime e carnefici si ritrovano perciò riuniti in una visione dell’odierna cultura cinese dei consumi, quella che il sinologo Kinkley ha giustamente definito «apocalittica».

«Tutti hanno qualche responsabilità nel fatto che la società è divenuta quella che è» – scrive in una delle sue lettere Li Yidou – e la letteratura non è esclusa da colpe. Nel corso della narrazione Mo Yan non manca di scagliare la sua feroce ironia sul mondo letterario degli anni ’80, prendendosela tanto con il saggio veterano Wang Meng, quanto con l’impertinente Wang Shuo, autore della cosiddetta «letteratura dei teppisti», che si nasconde dietro un nome fittizio; e arriva fino a giudicare se stesso, la propria biografia e la propria scrittura. Scherza sulla propria mancanza di «senso della misura», sul fatto di parlare «come un libro stampato», e si fa definire da uno dei suoi personaggi «un furfante che ama le donne», «un fumatore e bevitore accanito, (che) ha bisogno di soldi e ama collezionare storie di demoni e fantasmi e aneddoti fantastici per infarcire i suoi romanzi».

Di demoni e fantasmi è in effetti saturo anche questo romanzo: c’è, per esempio, un bambino squamato, capace di inveire come un adulto e combattere come un guerriero, che si trasforma inopinatamente nel nano Yu Yichi, dotato di poteri sovrumani e irresistibile potenza sessuale; oppure una camionista attraente che seduce l’ispettore sprofondandolo nei torbidi grovigli di Jiuguo con arti degne di un classico spirito-volpe; o, ancora, il veterano della Rivoluzione, impotente custode di un vuoto cimitero di ideali. Nessuno dei personaggi del romanzo è, insomma, quello che appare, e – squarciato il velo dell’ipocrisia – l’ispettore/Mo Yan mette a nudo i sintomi di una corruzione che riguarda non solo le istituzioni ma i singoli individui.

Il finale, tagliato nell’edizione continentale (di cui è frutto questa traduzione), prevede un lungo monologo alla Joyce, in cui il personaggio Mo Yan, ubriaco, si abbandona al flusso di coscienza ribadendo il tema dell’opera senza più remore alla verbosità della sua scrittura. Ma anche lungo tutto il romanzo, in preda a un furore dionisiaco la storia si contorce in una lingua lussureggiante, densa di similitudini spesso tratte dal mondo animale, che, nella visione quasi buddhista dell’autore, equivale a quello umano. Un universo «umanimale» (come direbbe il sinologo sino-francese Yinde Zhang) popola Il romanzo dell’alcol: le bestie partecipano delle vicende e delle sofferenze umane, condividendone a volte i destini.

La sensorialità sovrabbondante della lingua amministra, talvolta sopraffacendola, la narrazione, lo stile allucinatorio moltiplica e stravolge i significati, trasformando tutto, pensieri ed emozioni, in esperienza fisica: «nel suo ventre sembrava dibattersi e agitarsi un groviglio indistinto, puntuto, inestricabile, attorcigliato, avvinghiato, stratificato, denso: un vero e proprio nido di vipere sibilanti, che lo strattonava da una parte all’altra dilaniandolo». E alla fine, in questo che è il più politico dei romanzi di Mo Yan, la dovizia sinestetica del testo si fa contenuto, insinua un inquietante e luxuniano sospetto puntando il dito sul culturalismo cinese: forse proprio perché fin troppo antica e raffinata, questa tradizione paradossalmente genera, in seno alla propria estenuata civiltà i germi del male e della barbarie.

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