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Mo Yan, gloria alla carne

Mo Yan, gloria alla carneZhang Huan, «Man wearing meat», 1998

Romanzi cinesi Pubblicato in Cina nel 2003, «I quarantuno colpi» esce ora da Einaudi. Tutto è eccesso in questo erede asiatico di Rabelais: dall’appetito sessuale e di cibo ai trionfi orgiastici della parola

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 7 maggio 2017

Quando la rete di significati e di costumi legati al cibo diventa misura dell’etica, della coscienza politica, dell’identità culturale e nazionale di un paese, il comportamento degli uomini di fronte a ciò che si mangia stabilisce anche alcune traiettorie del destino, e a volte la chiave stessa delle relazioni personali. Dal Re degli scacchi di Acheng, a Vita e passione di un gastronomo cinese di Lu Wenfu fino a Il Paese dell’alcol di Mo Yan, sono numerose le opere che la narrativa cinese ha dedicato a questo tema, rendendolo non soltanto una griglia interpretativa originale della storia recente e delle radici culturali del paese, ma anche una incisiva metafora della sua contraddittoria modernizzazione.

Nel suo romanzo pubblicato in Cina nel 2003, I quarantuno colpi, (ora tradotto per Einaudi da Patrizia Liberati, pp. 456, euro 22,00) Mo Yan rappresenta se stesso nello sbruffone affabulatore che è protagonista di una vicenda paradossale e profondamente «umanimale», e si serve abilmente del cibo per inscenare il suo consueto melodramma sui cambiamenti morali ed economici del mondo rurale. Con una narrazione episodica ed espiatoria che svela solo man mano, e a sorpresa, i fatti più drammatici, l’aspirante monaco Luo Xiaotong sciorina la vicenda di peccaminosi eccessi, di debolezza umana e umana hybris che ha luogo nel Villaggio dei Macellai. Destinatario del monologo-confessione è il vecchio monaco di un decrepito tempio, che diventa teatro del turbinoso avvicendarsi di scene simboliche, dotate di echi plurisensoriali.

Non c’è cultura tradizionale più carnivora e onnivora di quella cinese, eppure la stretta convivenza millenaria con gli animali nelle campagne si traduce in Mo Yan in una radicale identificazione nelle bestie, vittime della violenza prepotente dell’uomo ma anche partecipi della sua sorte incerta. Intrecciata a questa visione buddhista della sostanziale identità tra esseri viventi, si insinua nel romanzo-confessione una nota ambientalista sulle innumerevoli violazioni alla sicurezza alimentare, causate da una perversa cupidigia.

Alle immagini di irresistibile voluttà carnale si alternano aspirazioni alla astinenza e al superamento del desiderio: Xiaotong lascia scorrere davanti all’impenetrabile monaco il fiume della sua memoria, sottoponendosi contemporaneamente a una serie di barocche visioni tentatrici, in cui la sua (e la nostra) capacità di discernimento tra realtà e finzione viene messa continuamente alla prova.

Il racconto iniziatico di Xiaotong è una forma di contrappasso per la sua formidabile ingordigia e per aver partecipato alla criminale produzione di carne adulterata, venduta nel suo villaggio. Nel suo pentimento si riflette l’immagine apologetica di una Cina (impersonata anche nella figura dell’ostetrica protagonista di Le rane, romanzo centrato sulla politica demografica) passata in pochi anni dalla fame alla bulimia. Ancora una volta al centro è la campagna cinese contemporanea, orfana del mitico investimento maoista sulla nobiltà del lavoro agricolo, e figlia – invece – del sogno denghiano di una facile prosperità materiale, salacemente descritta da un altro autore cinese amante del grottesco, Yu Hua, nel suo romanzo Arricchirsi è glorioso.
Nel virtuosismo narrativo di Mo Yan la fabula è sempre costruita su vari livelli diegetici: qui la lunga confessione-racconto del giovane Xiaotong si svolge parallela a una fantasmagorica successione di visioni. La dimensione cronologica assume i contorni tradizionali di un tempo ciclico che racchiude in sé presente e passato senza soluzione di continuità. Intercalate a ogni capitolo, le allucinazioni carnascialesche e i doviziosi cataloghi rabelaisiani di pietanze stravaganti rallentano il ritmo degli eventi proiettati dai ricordi ora struggenti ora ironici di Xiaotong, per lasciare poi il posto a improvvise riaccelerazioni di repentini e irrimediabili coup de théâtre.

Nell’orto della famiglia Luo, che prima del rapido arricchimento grazie alla vendita di carne si era sostenuta raccogliendo ferri vecchi, è piazzato un cannone: quarantuno sono i colpi (e altrettanti i capitoli del romanzo) della vendetta di Xiaotong contro il suo arcinemico Lao Lan, una vendetta tutta verbale. In cinese «cannonata» può significare «vanteria, smargiassata», ma in questo amplesso tra finzione e realtà, l’ultimo colpo riserverà a Lao Lan un finale vagamente calviniano.

Se nel romanzo il buddhismo ispira il tema animalista, al tempo stesso offre una riflessione metanarrativa, peraltro consueta in Mo Yan, sul tema della verità e della sua inconsistenza. Una straordinaria quantità di oggetti capaci di stimolare torbide sensorialità e prefigurare turgidi universi abitano queste pagine del cantastorie cinese, che affonda a piene mani nel gusto del dettaglio iperrealistico, allestendo una teatrale messa in scena di bizzarre rassegne di animali e creature liminari fra reale e fantastico.

L’«ossessione animale» di Mo Yan, che popola tutti i suoi romanzi, si realizza nella trama centrata sul Villaggio dei macellai e sulla fabbrica di carne – con una serie di episodi collaterali tra cui la tragicomica battaglia degli struzzi o il diabolico laboratorio per gonfiare d’acqua le bestie prime della macellazione; ma ancora più interessante è il linguaggio intriso di similitudini e metafore animalesche che riportano costantemente l’immaginazione del lettore a un mondo in cui sensazioni, emozioni e caratteristiche fisiologiche o morali dei personaggi segnalano la bestialità intrinseca all’essere umano. Una bestialità che non lo degrada ma lo riconduce piuttosto a uno zoomorfismo quasi religioso, comunque primordiale: la «religiosità» di Mo Yan, infatti, sembra alludere a una visione sacra e viscerale della natura.

Sin dall’inizio, il tema della carne e della gola è dichiaratamente associato a quello della lussuria: se nel suo racconto Luo Xiaotong – campione di scorpacciate di carne – esibisce con quel cibo un rapporto amoroso di complice e sensuale identificazione, nell’ambiente monastico della sua confessione, invece, succulenti banchetti e seducenti corpi di donne e di uomini si materializzano allo scopo di eccitare i suoi appetiti per poi mortificarli.

Tutto è eccessivo nel Villaggio dei macellai, le orribili manipolazioni sulle carni prodotte, l’appetito sessuale e di cibo; ma la vera orgia riguarda le parole, il fiume di storie e vanterie capaci di sfidare ogni senso comune. Anche in questo romanzo, dunque, Mo Yan si conferma l’erede asiatico di Rabelais: per la sua epica glorificazione della carne, per il gusto dell’esagerazione, per la salutare e crassa esaltazione delle funzioni corporali, per la gioiosa sacralità dell’atto del mangiare elevato a forma d’arte, per la parodia dei rituali religiosi (la cui spiritualità non è che l’altra faccia della carnalità interna al gesto quotidiano), e insomma per la sua abilità nel rappresentare il basso, il comico e la cultura popolare.

Ogni romanzo di Mo Yan è sempre potentemente politico, e ritrae in maniera puntuale l’evoluzione complessa della società cinese, anche se qui non c’è traccia dei contadini oppressi e rivoltosi che popolavano Le canzoni dell’aglio, ambientato solo dieci anni prima. Alla ribellione sociale si sostituisce, nei Quarantuno colpi, una sfida individualista e postmoderna: il piccolo Xiaotong disdegna la scuola, consapevole di quante più cose abbia imparato raccogliendo i rifiuti del nascente consumismo del villaggio, e alla logica matematica antepone quell’istinto darwiniano di sopravvivenza, che, secondo il si nologo Kinkley, è la vera chiave del romanzo cinese contemporaneo, variante di una universale vena distopica.

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