Tra i luoghi più significativi nella storia dell’umanità ve ne sono, ovviamente, di reali (Gerusalemme, Roma, Machu Picchu ecc.) ma ve ne sono anche di immaginari: tra questi, Atlantide occupa senza dubbio il primo posto. Da 2400 anni, cioè da quando ne ha parlato Platone, Atlantide rappresenta una metafora plurale e complessa per parlare dell’utopia e della catastrofe, dell’età dell’oro e del paradiso perduto, cioè tanto dei sogni quanto degli incubi dell’umanità. A causa dell’enorme fortuna di questo luogo mitologico, è sterminato l’elenco di scrittori, filosofi, storici, archeologi, geografi e poeti che ne hanno parlato: per districarci in un tale dedalo di percorsi, ci soccorre il libro Benvenuti ad Atlantide: passato e futuro di una città senza luogo di Marco Ciardi (Carocci editore, pp. 262, euro 22).

FORTE della sua pluridecennale ricerca su questo mito, l’autore ci presenta – con dovizia di particolari ma con una scrittura agile – molte delle immagini e delle storie di Atlantide che sono state elaborate non solo nelle diverse scienze e nella letteratura, ma anche nel cinema, nei fumetti, nella musica e nella divulgazione pseudoscientifica. Nel libro ricorrono così i riferimenti a Jules Verne e a Carl Barks (il creatore di zio Paperone), da Francis Bacon a Peter Kolosimo, da Madame Blavatsky (la fondatrice della società teosofica) a Pierre Vidal-Naquet, da Isaac Newton a Howard Phillips Lovecraft e a molti altri ancora. Inutile sarebbe dunque, in poche righe, tentare di riassumere la ricchezza e il fascino della variegata letteratura su Atlantide suddivisa da Ciardi per temi e questioni. Molto più utile, invece, è tentare una chiave filosofica di lettura di questo mito, che ci riguarda ancora oggi. Nel suo essere una civiltà splendente e tuttavia giunta alla rovina, Atlantide ci pone infatti almeno una grande questione: l’utopia e i suoi possibili esiti.

NEL FAMOSO LIBRO di Thomas More (Utopia, 1516) il termine «utopia» viene introdotto per la prima volta per designare una comunità ideale, perfetta ed egualitaria, evidenziando la duplicità di senso tra luogo inesistente (dal greco ou-topos), luogo senza luogo (a-topos) e luogo del bene (eu-topos).
Da allora l’utopia rappresenta l’essenza della cultura moderna, nel suo sforzo verso l’emancipazione dai legami tradizionali, la critica delle autorità costituite e la realizzazione di una società garante di giustizia e libertà. In quanto comunità ideale, l’utopia si contrappone a un presente degradato, proponendo un progetto meditato e razionale di società giusta in cui bisogni individuali e beni collettivi, aspirazioni private e scopi pubblici possano trovare una logica e armonica compenetrazione.

In questa prospettiva il carattere desiderante e immaginario dell’utopia rimanda a una concezione «aperta» dell’agire individuale e sociale, arricchita dalla dimensione della possibilità e della libertà, contro ogni immagine dell’esistente cristallizzata in una concezione chiusa e determinata della realtà. L’utopia ci dice dunque che – se non vogliamo chiudere ogni spazio di progettualità sociale e politica e vivere in un «eterno presente» – è con una sua nuova interpretazione che dobbiamo oggi fare i conti.

DELL’UTOPIA esiste però anche un’altra faccia, meno affascinante ma purtroppo talvolta presente. I progetti utopici di emancipazione possono infatti rovesciarsi nel loro esatto opposto, cioè o in distopie politiche totalitarie o in desideri collettivi di onnipotenza – fondati soprattutto sulla potenza della scienza e della tecnica, intese in senso meccanicistico – che costituiscono la premessa per la rovina della società.
Il mito di Atlantide contiene in sé entrambe queste immagini dell’utopia e Ciardi non tarda a sottolinearle ricordandoci, in particolare, che oggi l’immagine della catastrofe è quanto mai incombente, visti i sempre più gravi problemi ambientali che affliggono la Terra, sottoposta a un atteggiamento predatorio incontrollato, fondato proprio su un delirio di onnipotenza – condito da avidità di ricchezza e di potere – che utilizza la scienza e la tecnica come mezzi di conquista della natura. Il problema è dunque quello di scegliere tra i diversi «futuri possibili», in chiave sia ecologica sia di giustizia sociale. E tali «futuri possibili» dipendono dalle nostre scelte e dalla nostra responsabilità: «Perché la fine di Atlantide non diventi uno scenario altamente plausibile anche per la nostra civiltà, dovremo prima o poi deciderci non solo a fare un uso più equilibrato delle risorse naturali, ma anche a redistribuire la ricchezza in maniera più equa, sia a livello internazionale, sia a livello dei redditi dei cittadini dei singoli Stati».

UNA NUOVA RIFLESSIONE sul mito di Atlantide implica dunque un ripensamento del nesso tra progresso scientifico-tecnico e progresso etico-politico, con una particolare attenzione per il significato della giustizia sociale nell’epoca della globalizzazione. Con una consapevolezza: che il valore progressista dell’utopia – se non vuole trasformarsi nel suo opposto – si delinea nella sua apertura, nella sua capacità immaginativa e nella sua incompiutezza. L’utopia è tale solo se è «un’attesa», cioè una modalità di opporsi all’apparente necessità di ciò che è dato. Se invece dell’utopia seguiamo la versione distopica o fondata sul desiderio di onnipotenza, ci attende la fine di Atlantide.