«Misericordia», sotto la luce della Sicilia il senso del mito nella parabola di Arturo
Cinema Nelle sale il film di Emma Dante tratto dall'omonima piéce teatrale
Cinema Nelle sale il film di Emma Dante tratto dall'omonima piéce teatrale
C’è un senso del mito, in vari livelli, incarnato in un mosaico di interpretazioni, variazioni, attualizzazioni; radicato innanzitutto nella Sicilia terragna e marina di Rosso di San Secondo – ormai dimenticato, perduto nei gangli di innumerevoli lacune libresche, o negli interstizi polverosi, mucidi di palcoscenici dismessi, la sua Bella addormentata, prostituta assolata, desolata, che torna ora in Anna, nella sua frontalità pasoliniana, ridente –, in quella lunare, rocciosa di Ciaula, e di lì in avanti, tra Pasolini e Morante, o indietro fino all’elementarità, esemplarità dei miti classici; tutto questo, ma vivo e vegeto, anche vegetale, brulicante di sterpi e di luce propria, e di una straordinaria libertà linguistica, nell’ultimo film di Emma Dante, Misericordia.
L’innocenza del protagonista cresciuto da tre prostitute, amiche della madre uccisa
Un film magnifico: una mescola immaginifica, viscosa e aerea al tempo stesso, tragica e incantata di carillon, che riformula il mito nel contemporaneo – Polifemo, il deuteragonista interpretato da un cagnesco, grandioso Ferracane; il mostro, sorta di Minotauro, Arturo nato dalla coercizione, dall’inganno; il filo di Arianna di cui Arturo infittisce una delle tante eterotopie a cui s’apre il film –, inserendosi in quel segmento segnato da Marcello e Rohrwacher (per non dire del teatro contemporaneo, che è il luogo privilegiato in cui si muove Dante, così pieno di miti attuali), guardando (traguardando) anche a Capuano, Maresco, ecc.. Insomma una costellazione di riferimenti culturali che scandiscono una poetica nuova, originale nell’intervallo della Misericordia, finché dura la Misericordia, questo processo di trasmissione dell’essere dentro l’opera, attraverso l’opera, questo recupero dell’essere, dell’essere stati, dentro al mito.
È COSÌ che probabilmente la madre di Arturo rivive in Anna (Milena Catalano, candida ed erotica), arrivata da chissà dove: arrivata dal tempo e dallo spazio di molteplici miti assolati, marini, lunari; molteplici racconti intrisi di violenza, magia, erotismo; venuta proprio dalla tensione, connaturale ai corpi, di raccontarsi, di dirsi in relazione a un recupero d’essenza, d’innocenza.
Ecco perché Misericordia «funziona», anzi pullula di vita al di là dell’impianto mortuale che era delle Sorelle Macaluso: perché va oltre il presente, oltre la presenza dei corpi; «proietta» la presenza dei corpi – una presenza nuda, concreta, tracimante di carne e cose, ossa e ciarpame che nel presente senza scampo non sono che carname e ciarpame, pasto nudo ingurgitato e vomitato – nella luce retroattiva (anzi eternante) del mito, del cinema.
È IN QUESTA LUCE che può apparire l’innocenza di Arturo, così come la misericordia e il dolore ingoiato delle sue madri (non una lacrima, se mai l’abluzione, la purificazione in mare e di nuovo immerse nel terribile, gioioso «avvenimento del mondo»); nella luce della «proiezione», dell’inquadratura, della «forma», cioè il tuono imposto al monte; l’abbaglio alla luna crescente; l’ondivaga onnipresenza impressa al mare che invade ogni cosa. E su questa ipostasi, su questo calco arcano, ancestrale, come il monte di Naderi; la luna raggiante di Ciaula o di Gurù, la fanciulla-capra di Landolfi; l’isola selvaggia e sognante della Bella addormentata e del Nero della zolfara.
O quella di Morante o di Polifemo, che sono gli elementi di un continuo riflusso d’essere, l’unico possibile; ecco impiantarsi il presente urgente della periferia più estrema (ma senza perdere per un istante il contatto con il mito); i cumuli di immondizia – il lerciume sovraccarico in cui vagano e giocano i bambini –, i modi grossolani ma così genuini, così essenziali delle prostitute (e di qualche altro «randagio della vita»): sono la materia di risulta che che s’accumula intorno al segno scabro, che fa sì che il segno cinematografico, dall’essere semplicemente referto (e denuncia) del presente, passi a simbolo, anzi antifrasi, di una purezza che agisce nel cuore dei corpi, degli esseri.
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