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Miseria e sangue a Yarmouk

Miseria e sangue a YarmoukDonne in fila per il cibo nel campo palestinese di Yarmouk – Reuters

La guerra siriana Nel campo palestinese alle porte di Damasco, dove continuano i combattimenti. popolazione senza acqua né cibo: è emergenza umanitaria. E dopo l’attacco dell’Isis gli abitanti sono passati da 160 mila a 6 mila. Restano i giovani, che «non andranno via se non per tornare in Palestina»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 18 aprile 2015
Federica IezziYARMOUK (DAMASCO)

Espulsi i combattenti palestinesi di Aknaf al-Bayt al-Maqdes, lo Stato Islamico esce dal campo di Yarmouk, a sud di Damasco, e rientra nella sua roccaforte, il quartiere di Hajar al-Aswad. È così che funzionari palestinesi descrivono ai media la situazione attuale a Yarmouk.

In realtà i combattimenti continuano all’ingresso nord del campo. Il gruppo armato palestinese legato a Hamas prende il controllo di strade ed edifici periferici e avanza verso la parte nordest. Al Fronte al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda, rimane il controllo della maggior parte di Yarmouk.

Il campo, istituito nel 1957, prima del conflitto siriano iniziato nel 2011 ospitava circa 160.000 palestinesi. Tutti rifugiati e discendenti della Nakba, l’esodo palestinese del 1948. Dopo due anni di assedio, qualche settimana fa l’attacco dei combattenti jihadisti ha ridotto la popolazione a 6000 abitanti. Almeno 47 civili sono stati uccisi durante gli scontri e 60 sono ancora in condizioni critiche.

Secondo i dati forniti dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Damasco, 500 famiglie, circa 2.500 persone sono riuscite a fuggire da Yarmouk all’inizio dei combattimenti, attraverso due uscite nel distretto di Zahira. «I giovani di Yarmouk rimasti, non andranno via se non per tornare in terra palestinese» dice Hussam, di 23 anni. «La maggior parte dei giovani ha disertato dall’esercito e teme di essere arrestata dalle forze siriane». Quindi rimangono tutti intrappolati tra elementi armati all’interno del campo e forze governative esterne.

Oggi nelle congestionate stradine di un ghetto impoverito, con fori di proiettile tra casa e casa, regna la miseria, mancanza di cibo, acqua pulita ed elettricità. I muri sono segnati dai colpi dei proiettili e dal rosso del sangue indurito.
L’acqua potabile arriva dai pozzi aperti che funzionano grazie a impianti a carburante. Il costo di un litro di carburante è salito di circa il 30%. 130 syrian pounds, poco meno di un dollaro. Allora i bambini riempiono contenitori di plastica gialla con acque reflue, non trattate, provenienti da pozzi scavati sulla superficie delle strade del campo. «Ha il sapore di tutto tranne che dell’acqua», raccontano i residenti.

Nelle centrali Palestine street e al-Madares street solo distruzione e massacri. Frammenti di vetro, macerie e polvere incolore. «Finiti ravanelli e verdure di base, adesso mangiamo l’erba», è l’inammissibile racconto di donne magre, con occhi infossati. In lontananza il fumo grigio che sale e il rumore assiduo di raffiche di mitra e dei Mig.

«Le strade sono abbandonate e piene di detriti – racconta Hadeel -, le persone rimangono nascoste nelle loro case, molte senza porte né finestre. Usciamo sotto il fuoco dei cecchini sistemati sugli edifici più alti e dei bombardamenti a cercare acqua. L’Isis ha colpito il panificio Hamdan, nel mezzo di Yarmouk Street. Ci andavo ogni mattina».
Zayna, giovane madre, ci dice che nel campo manca tutto. Non sa cosa dare da bere ai suoi due bambini. Non sa come lavarli. Non sa come curarli dalla tosse. «Compro il pane arabo che entra nel campo insieme ai contrabbandieri a più di 10 dollari. Scendo a prendere acqua sporca nei serbatoi. La rete elettrica e i rubinetti nelle case non funzionano».
Rama, un’infermiera senza più lavoro, ci dice: «Fuad e Salah, i miei figli, non sapranno mai cos’è un melograno. Non lo vedranno mai. Non mangiano frutta. Non la conoscono». Il marito di Rama è nella prigione di Tadmor, a nordest di Damasco, dal 2013. «Il motivo? Aver partecipato a una manifestazione contro l’assedio del campo da parte delle forze di al Assad».

Macchie di sangue e detriti segnano gli ingressi delle scuole. Nei due chilometri quadrati di Yarmouk, ci sono almeno 20 scuole gestite dall’Unrwa e altre ambiguamente sovvenzionate dal ricco Occidente. I raid aerei e i colpi di mortaio sulla densa area civile, non permettono ai bambini di continuare a studiare. Le scuole sono chiuse. Le lezioni sospese. Gli insegnanti non lavorano. I bambini non escono di casa.

Nella prima settimana di aprile il cortile della Jarmaq school è stata teatro degli scontri tra ribelli siriani, combattenti dell’Isis e forze governative. Mentre più di 50.000 insegnanti sono fuggiti dalla Siria o sono stati uccisi e 2 milioni e mezzo di bambini non vanno a scuola all’interno del Paese, devastato dalla guerra, alla Jarmaq school, le lezioni non si sono fermate.

Nidal, un’insegnante nata a Yarmouk, ricorda la madre, cresciuta nel villaggio di Qisarya, a sud di Haifa, costretta a lasciare la sua casa e a rifugiarsi in Siria. «Anche lei insegnava. E lo faceva con armonia nonostante la rabbia, il risentimento e la malinconia che la divorava». La voce di Nidal si ferma per un attimo: «Non mi fanno paura i mortai e i kalashnikov. Mi fa più paura l’ignoranza. Così continuo ad andare a scuola. Facciamo le lezioni in cantina. Non vengono tutti i bambini. Ma anche se ce ne fosse solo uno, io continuerei a parlare di letteratura e matematica».
Secondo i dati Unrwa, oggi si riesce a fornire a Yarmouk un aiuto irrisorio. Le razioni di cibo che entrano, bastano per assicurare appena 400 calorie al giorno per persona.

Gli abitanti non hanno accesso a cure mediche. Qualche giorno fa è stato bombardato dalle forze governative il Palestine Hospital. Da allora è chiuso. I combattenti hanno bloccato l’ingresso di aiuti umanitari da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa, nell’al-Basil Hospital. E non hanno permesso l’evacuazione dei feriti più gravi, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

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Radwan è un anziano medico siriano, che vive a Yarmouk da quando l’esercito governativo ha colpito la sua casa a Dara’a. La sua famiglia è stata sterminata. Gli rimane una figlia che è riuscita a lasciare la Siria: «Ora è in Libano – dice – ma il posto è cambiato, il dolore l’ha seguita». Radwan lavorava nel Palestine Hospital. Quel giorno, quando sono iniziati i raid aerei siriani, le sue mani venivano implorate da una stanza all’altra, tra trasfusioni e ferite da arma da fuoco. «Le ferite alla testa e le ossa rotte sono semplicemente curate con le bende», ci racconta affaticato. Fermo nelle sue idee, continua: «Tutti quelli che combattono qui sono sponsorizzati da qualcuno. Sono tutti giocatori nella guerra in Siria: Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Iran, e potenze mondiali come gli Stati Uniti e la Russia».

L’ospedale non ha strumenti chirurgici, solo un ecografo e un apparecchio per fare radiografie. Niente cure pre o post-natali. Il governo siriano fornisce solo sali per la reidratazione e antidolorifici di base.

«Viviamo in 98, tra cui 40 bambini, nelle tre classi della scuola di mio figlio». Non c’è rabbia o isteria nella voce di Enaya, solo un racconto calmo dei fatti. «Un chilo di riso lo paghiamo quasi tre dollari, più di tre dollari un chilo di pomodori. Non c’è zucchero. L’acqua è sporca. E non abbiamo il permesso di attraversare la terra di nessuno sui bordi del campo, una volta al mese, per raccogliere pacchi alimentari».

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