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Miseria capitalistica e comunismo democratico

Miseria capitalistica e comunismo democraticoIl monumento a Karl Marx a Chemnitz, in Germania, in tenuta da Coppa del Mondo – foto LaPresse

La nuova edizione Einaudi del «Capitale» ha dato lo spunto all’inserto culturale del Corriere della Sera per alcune critiche alle idee di Marx. Che meritano una risposta

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 17 agosto 2024

L’ultima Lettura del Corriere della Sera apre con tre articoli che prendono spunto dalla nuova edizione del primo volume del Capitale di Marx curata per Einaudi da Roberto Fineschi. Oltre a un efficace scritto di Marcello Musto sulle differenze tra le prime cinque edizioni del libro, e a uno di Giuseppe Sarcina sulle diversità che connotano le sinistre nel mondo, un articolo di Maurizio Ferrera ricorda i temi del capolavoro marxiano, ne riconosce l’importanza storica e, soprattutto, sottolinea gli elementi che lo renderebbero obsoleto.

Non voglio qui difendere Marx o disquisire su questo o quell’aspetto della sua teoria. È inutile in questo ambito, anche perché è lo stesso Ferrera a ricordare come resti vero che il pensatore di Treviri e il suo libro esercitino oggi una rinnovata influenza, tanto più in quanto gli ultimi decenni di trionfo del liberismo, scrive lo studioso, «hanno coinciso con una intensa crescita delle diseguaglianze economiche e della precarietà sociale». Per questo motivo, prosegue, assistiamo a un revival del pensiero di Marx e dei comunismi: perché «attingendo alle idee di Marx, è stato possibile avviare un nuovo “discorso” pubblico», riproponendo visioni alternative di organizzazioni dell’economia e della società.

Non sono riconoscimenti da poco – come non lo è il fatto che il principale quotidiano italiano dedichi a Marx le prime cinque pagine del suo supplemento letterario, sia pure con giudizi largamente sfavorevoli. Anzi, andrebbe aggiunto che se è vero che il pungolo critico marxiano continua a essere utile contro il capitalismo, il punto debole delle teorie politico-sociali che si vogliono marxiste sta proprio nel non saper proporre una convincente idea di società socialista che si ponga su un terreno di reale alternativa al capitalismo.

Per Ferrera però il punto è soprattutto un altro. Ripetendo un noto mantra della critica liberal, egli scrive che «il grande limite» delle proposte neomarxiste starebbe nel fatto che esse «tendono a perdere per strada l’eredità liberal-democratica», a sottovalutare «diritti e democrazia formale», cioè «l’inevitabile persistenza delle dinamiche di potere e i loro rischi di sopraffazione».

Non credo che le cose stiano così. Credo anch’io che sia stata vera e drammatica la sottovalutazione del tema del potere e della democrazia formale da parte delle forze impegnate a realizzare una democrazia sostanziale, ovvero il socialismo. Ma ritengo anche, da una parte, che il tentativo guidato almeno inizialmente da Lenin abbia deviato dai suoi intenti originari a causa dall’aggressione (assai poco democratica) subita dagli Stati capitalistici e poi dai fascismi. E, dall’altra, che molti materiali per una costruttiva autocritica dei socialismi rivoluzionari siano presenti nella stessa cultura marxista – da Rosa Luxemburg ai consiliaristi, da Gramsci a Mariategui, a Lukács (solo per citarne alcuni), e a tante correnti di pensiero post-1956.

L’obiezione che questi comunisti democratici non sono tuttavia mai stati al potere è ingiusta. Sia perché non si può comunque negare a essi una sincera volontà di autocorrezione teorico-politica, sia perché le forze del capitale hanno spesso impedito loro in tutti i modi (di nuovo: anche in modi molto poco democratici) di misurarsi col governo.

IL CASO DELL’ITALIA è eclatante. La nostra tradizione comunista democratica, pur non senza contraddizioni, ha gradualmente compreso l’importanza della democrazia politica, muovendo dalla riflessione gramsciana sull’egemonia, passando per la partecipazione convinta alla scrittura della Costituzione, culminando nelle posizioni berlingueriane che furono alla base dell’eurocomunismo e della «terza via» o «terza fase». Ma è stata ostacolata in tutti i modi, anche non leciti dal punto di vista della stessa teoria liberaldemocratica, almeno per come viene conclamata.

Credo che oggi sia vivissima nei socialisti e comunisti di molte tendenze la consapevolezza della importanza delle libertà liberali (tranne l’assoluta libertà d’impresa, ovviamente) e della democrazia. Vi sono in Marx stesso buoni argomenti in questa direzione. Basti pensare al discorso di Amsterdam nel 1872 sulla possibilità di vie democratiche al socialismo: si era – lo si noti – all’indomani di quella Comune di Parigi di cui egli aveva colto alcuni insegnamenti rilevanti sul terreno dell’autogoverno, ma che aveva anche tentato di scongiurare fino all’ultimo e di cui non affermava il valore paradigmatico e universale per ciò che concerneva l’aspetto insurrezionale armato.

È ugualmente viva nella cultura e nella politica liberaldemocratiche la consapevolezza di dover combattere il capitalismo per porre fine alla «intensa crescita delle diseguaglianze economiche e della precarietà sociale» di cui parla Ferrera? Non credo. E inoltre: la profonda crisi delle istituzioni parlamentari e lo svuotamento odierno della democrazia rappresentativa non dovrebbe portare a riflettere sui lati positivi della democrazia deliberativa? L’intreccio tra democrazia parlamentare e democrazia di base – auspicato da diversi autori comunisti e socialisti fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta – non potrebbe oggi dare nuova linfa vitale alle stesse istituzioni rappresentative svuotate e in declino?
Nelle società avanzate il socialismo o comunismo del futuro sarà democratico o non sarà. Il pen
siero liberaldemocratico o imparerà davvero a separarsi dal capitalismo e a combatterlo o, ugualmente, non avrà futuro.

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