Mircea Eliade, eruditi sabotaggi letterari, con vampiri e litomante
Dopo che Tzvetan Todorov, nel 1970, cartografò quell’ampio territorio della letteratura che va sotto il nome di fantastico, la sua proposta di sistematizzazione ha conosciuto ripetute messe in discussione e smentite; in ogni caso, ha inaugurato un dibattito teorico-critico che non si è più interrotto. Mentre in Italia tutto ciò è rimasto piuttosto marginale, nel Regno Unito le scritture sul fantastico hanno trovato più ampi spazi, e studiosi come Roger Luckhurst ne hanno tracciato meticolosamente le genealogie attingendo ai cultural studies. Eppure, anche recentemente, sono usciti saggi di studiosi italiani degni di rilievo, tra i quali Il vero inverosimile e il fantastico verosimile di Stefano Lazzarin e Pierluigi Pellini (Artemide edizioni) e la recente monografia di Davide Carnevale, Narrare l’invasione (Peter Lang, 2022) dove il fantastico novecentesco non viene più fatto oscillare tra spiegazione soprannaturale e razionale – come proponeva Todorov – ma è connotato da un’invasione del nostro mondo quotidiano da parte di una dimensione altra, aliena, incomprensibile, senza che al lettore sia concesso alcun rassicurante ritorno all’ordine iniziale.
Secondo Carnevale, adottano questa strategia finzionale sia Cortázar sia Lovecraft sia Buzzati; e l’invasione sembrava incarnarsi perfettamente già nella narrativa del grande storico delle religioni Mircea Eliade, di cui escono adesso da Castelvecchi i Racconti fantastici I (a cura di Horia Corneliu Cicortaş e Igor Tavilla, pp. 603, € 35,00).
A lungo guardato con sospetto per le posizioni politiche conservatrici che aveva abbracciato prima di stabilirsi negli Stati Uniti nel 1956, lo studioso romeno ha scritto narrativa in tutto l’arco della sua vita, come dimostrano le opere presenti in questo volume – che vanno dagli anni Trenta del Novecento, cui risalgono i due romanzi brevi in apertura della silloge, La signorina Christina e Il serpente, fino al 1964 con il racconto conclusivo, «Addio!…»; mentre il secondo volume, già previsto, coprirà gli anni fino alla scomparsa di Eliade nel 1986.
Già nel testo di apertura – ambientato in una pensione della provincia romena, gestita da una famiglia di sole donne – fatti sempre più inquietanti e inspiegabili sconvolgono il placido tran-tran degli ospiti, fino all’episodio conclusivo, più apocalissi ignea che catarsi risolutiva. Eliade si appropria della figura del vampiro (in origine, tutt’altro che romena, come insegna il volume che a questa figura ha dedicato Francesco Paolo De Ceglia) e la reinventa incrociandola con quella autoctona dello strigoi, il non-morto, ma declinandola al femminile (forse memore della Carmilla di Sheridan LeFanu). Ancora indebitato col fantastico ottocentesco, La signorina Christina deve il suo effetto straniante all’ambientazione romena, che carica l’atmosfera della vicenda di risonanze arcaiche e mitologiche.
Ben più originale, Il serpente ha inizio come una commedia di ambientazione borghese, ma nel momento in cui i protagonisti (una comitiva di gitanti in visita a un antico monastero) si porta nello spazio preumano della foresta, la comparsa del giovane e bello Andronic – forse posseduto da un dio, forse egli stesso il dio superstite di un tempo immemoriale – ci fa entrare in una dimensione primigenia e selvatica, che letteralmente invade il presente delle convenzioni borghesi (inclusi i matrimoni di convenienza) e fa esplodere una passione incontrollabile tra il misterioso Andronic e la giovane Dorina. L’erudizione di Eliade, per quanto niente affatto esibita, traspare fra le righe di questa narrazione dove l’effetto ricercato è, più che l’orrore o la paura, il timore reverenziale al cospetto della ierofania, ovvero la rivelazione del sacro.
Memorie dell’India e della sua millenaria tradizione spirituale, nonché degli studi sullo yoga – Eliade viaggiò e si trattenne, dal 1928, nel subcontinente indiano – sono invece il fondamento del racconto «Il segreto del dott. Honigberger», indagine sulla scomparsa di uno studioso dilettante incantato dalla letteratura in sanscrito e forse risucchiato dalle conoscenze esoteriche che si trovano fra quelle pagine; mentre in «Notti a Serampore» un gruppo di occidentali si trova a viaggiare nel tempo. Qui la narrazione fantastica diventa, per l’intellettuale romeno, una variante narrativa del suo bilancio di molteplici esperienze, viaggi, ricerche, unite all’instancabile riflessione sulla religiosità e le sue radici. In un racconto datato 1952, «Dodicimila capi di bestiame», ritroviamo persino la Romania devastata dalla guerra, dove la classica figura dei revenant alligna in un rifugio antiaereo.
Ma il testo di gran lunga più originale e spiazzante di tutta la raccolta è «Il litomante», inaugurato da un incontro casuale: in una località balneare romena, il protagonista si imbatte in uno strano individuo che legge il passato e il futuro nelle pietre, e che lo convince, sebbene riluttante, a rendersi oggetto di un vaticinio. A partire da questa situazione tutto sommato classica, Eliade sovverte completamente la trama, operando uno sconvolgimento degno di rivaleggiare con le visioni spiazzanti di Cortázar e le allucinazioni di Philip K. Dick: tutte le persone che il protagonista incontra gli parlano di un passato completamente diverso da quello che lui ricorda, come se la profezia del litomante non gli avesse svelato il futuro, bensì stravolto la sua stessa vita già vissuta. Tutti i protocolli diegetici in questo racconto saltano, e l’effetto di straniamento che ne consegue ricorda L’anno scorso a Marienbad di Resnais e Robbe-Grillet. Del resto «Il litomante» risale al 1959, già stagione di neoavanguardie e postmodernismo, e le scritture di Eliade degli anni Sessanta sembrano risentire di quella temperie culturale, come testimoniano anche altri due racconti – «Dalle zingare» e «Il ponte» – che mettono entrambi a dura prova le convenzioni narrative, rinunciando a una costruzione lineare del racconto.
A chiudere il volume, uno scritto di forte sapore surrealista, «Addio!…», ambientato in un teatro dove si mette in scena una pièce che il pubblico non riesce a vedere e può udire a malapena – perché il sipario resta ostinatamente abbassato – come a negare lo spettacolo agli spettatori. Chiave di lettura di tutta la produzione fantastica di Eliade contenuta in questa silloge, questo testo suggerisce, grazie a una serie di accenni da parte degli attori, che di tanto intanto sbucano dal sipario e si rivolgono al pubblico, come dietro il sipario si stia rappresentando la storia millenaria della religione – o meglio, delle religioni – alla quale l’uomo moderno e secolarizzato non può più accedere direttamente. La cortina, allora, servirebbe a rappresentare nient’altro o nientemeno che la morte di Dio annunciata da Nietzsche, e la messa in scena alluderebbe al rituale religioso: la narrativa di Eliade si rivela così, in ultima analisi, il rovescio della sua lunga esplorazione del sacro, in tutte le sue manifestazioni.
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