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Mircea Cartarescu, incauti miracoli

Mircea Cartarescu, incauti miracoliAdrian Ghenie, «Rest during the flight into Egypt», 2016

Scrittori romeni In equilibrio fra neoromantico e postmoderno, cronaca e fiaba, lo scrittore romeno inventa un Don Chisciotte orientale, erede canagliesco del Medioevo valacco: «Theodoros», dal Saggiatore

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Basta avere tanta fede quanto un grano di senape per spostare montagne e fare crescere alberi in mare: questa immagine, che Gesù mette di fronte agli apostoli sotto varie forme (Luca 17:5, Matteo 17:20, Marco 11:23) per indicare il potere incommensurabile della fede, è il minuscolo seme da cui germoglieranno le arborescenti avventure di Tudor, scapestrato garzone valacco, divenuto Theodoros, ovvero un infame pirata dell’Egeo, e infine Tewodros II, fiero e scellerato imperatore dell’Etiopia, così come dell’universo intero che gli ruota intorno, in uguale misura ricostruito e inventato da Mircea Cartarescu nel suo imponente e sontuoso ultimo romanzo, Theodoros (traduzione di bruno Mazzoni, il Saggiatore, pp. 706, € 29,00).

In quanto creatura letteraria, Theodoros nasce dalla penna dello statista e scrittore romeno Ion Ghica, testimone – al pari del proprio personaggio, ora adottato e ricreato da Cartarescu – delle follie e delle meraviglie di quel secolo curioso e crudele che è stato l’Ottocento, che rivive nelle indimenticabili Lettere a Vasile Alecsandri, pubblicate tutte insieme per la prima volta nel 1884 e oggi considerate un classico della memorialistica letteraria romena.

Nella lettera del 27 luglio 1883, Ion si rivolge da Londra all’amico Vasile, anch’egli politico e scrittore, per sottoporgli la bislacca ipotesi secondo cui l’imperatore dell’Etiopia Tewodros II, al secolo Kassa Hailu, sconfitto quindici anni prima dalle truppe britanniche, sarebbe stato in realtà Tudor detto Theodoros, figlio della serva greca Sofiana e del cappellaio valacco Grigorie, nato e cresciuto insieme al memorialista stesso nella tenuta del padre di questi, il boiaro Tache Ghica, a Ghergani, in Valacchia.

I semi della storia sono tutti qui – il carattere ribelle di Tudor, la sua destrezza con gli aquiloni, la scomparsa da Ghergani, la lettera alla madre recante il nome misterioso ed evocativo di Magdala, e così via – «un romanzo fantastico che aspettava solo uno scrittore», ha avuto modo di dire Cartarescu, che per parte sua si è incaricato di nutrire questi spunti con la sua prosa sontuosa e l’afflato mitopoietico della sua scrittura. Gli umili semi gettati da Ghica – cui lo scrittore romeno ha riservato il ruolo di guest star nel romanzo – crescono a dismisura, trasformando l’implausibile e in fondo ammiccante fantasticheria del memorialista (appena una nota a piè di pagina nell’infinito libro delle cose mai accadute) in una realtà finzionale (in)credibile, incantata e spietata come lo sono vere fiabe, dai fratelli Grimm a Ion Creanga, che funziona al tempo stesso come convincente parabola sul senso del destino e sul potere delle storie.

Cresciuto nella brumosa Valacchia, tra i racconti delle imprese di Alessandro il Macedone e le bibliche gesta di re guerrieri e profeti, fin da bambino Tudor – la cui prima parola si dice sia stata «Voglio!» – sapendo che con tanta fede quanto un grano di senape è possibile sradicare dalla terra una pianta di fico e metterla a dimora nelle acqua salate del mare si domanda quali obiettivi sarebbe possibile raggiungere laddove la sua fede pesasse quanto uno staio, o quanto il proprio corpo, o più ancora… Mutare l’orbita delle stelle su nel cielo e fermare il sole e la luna, far sì che i vecchi ritornino nel grembo delle loro madri per rinascere, volteggiare al di sopra degli stessi cherubini, o forse, addirittura, diventare Re, l’unico re mai menzionato nelle fiabe, o Dio: tutto questo gli sarà dato? Se non fosse che la fede di Tudor non è quella dell’umile uomo magnificato da Gesù agli apostoli, bensì una volontà, «tenace ed esente da dubbio»: «Non sai come riesci a muovere il tuo dito e non puoi muovere il dito di un altro. Ma il tuo si muove a tuo piacimento. Non sapresti neppure come far sbocciare un garofano, ma se volessi ciò con sufficiente volontà esso si schiuderebbe immediatamente da gemma sotto i tuoi occhi. Non sai come fai a dilatare gli angoli della bocca quando sorridi: allo stesso modo, non sapresti neanche come, guardando una nuvola …. possa cominciare a nevicare in piena estate». Ormai divenuto Tewodros, Tudor capirà troppo tardi che se la fede viene da Dio, la volontà viene dal Diavolo.

Come già in Solenoide, anche in Theodoros si intravede una chiara filigrana dantesca: tre parti di 11 capitoli ciascuna, ognuna intitolata a uno dei nomi e delle vite del protagonista, lungo le quali si srotola – in senso contrario al periplo ascendente della Commedia – la sua discesa verso l’inferno e la dannazione. Laddove in Solenoide l’inferno è più metafisico, visibile in trasparenza attraverso le trame realtà quotidiana, in Theodoros esso è quanto mai concreto e materiale, fatto di sangue, oro e lacrime, guerre, amori e illusioni. La vicenda centrale si svolge lungo cinque decenni in pieno XIX secolo per arrivare fino alla Fine del Mondo, portando nella prosa di Cartarescu un genere nuovo, un romanzo «pseudo-storico» (come lui stesso lo ha chiamato) che mette apparentemente da parte quella dissezione quantica del sé già sperimentata nella sua prosa precedente – da Travesti a Melancolia passando per Abbacinante e Solenoide – per comporre un romanzo di pura e sfrenata fantasia, al tempo stesso solidamente ancorato alla Storia di quell’«epoca del progresso meccanico smisurato, intrecciato orribilmente con la brutalità e le violenze delle guerre coloniali», che è stato l’Ottocento.

Tuttavia, si riconoscono in queste pagine di Theodoros, seppure in nuove vesti, anche sogni e incubi del Cartarescu di sempre, temi, motivi e simboli della sua personalissima «cosmitologia», fatta della ricerca di un senso nascosto, dell’aspirazione a uscire dal labirinto, della realtà come sogno, della fede nel potere redentore della letteratura. Così come resta inconfondibile la sua scrittura: lussureggiante, visionaria, sottilmente ironica, che eccelle sia nell’indagare sia nell’indugiare dentro le pieghe segrete delle cose e degli animi, così come si attarda nei retroscena degli eventi, qui minuziosamente ricostruiti, sublimando il reale in immagini di straordinaria suggestione e forza evocativa. Un dettaglio minuto, come il fatto che Tudor (nel racconto di Ghica) fosse un provetto costruttore di aquiloni, si trasforma – nelle pagine di Cartarescu – nella fiabesca veduta di una infinità di cervi volanti, di ogni forma e colore esistente e inesistente, che si levano sopra Bucarest «sforzandosi per svellerla dalle radici e portarla in un altro mondo, dove tutto è possibile».

Come tutti i personaggi di Cartarescu, anche Tudor-Theodoros-Tewodros vive in un mondo di segni e segnali, di portenti terrificanti e mirabili, che lo guidano lungo l’ineluttabilità di una sorte «decisa prima della creazione del mondo» e scritta da una mano misteriosa (al lettore sciogliere il mistero di chi sia il proprietario di quella mano e della voce narrante della storia). Perseguendo con indomabile e diabolica volontà il destino che si è scelto – l’unico, peraltro, che gli sia stato dato – lo scapestrato garzone finisce per unirsi ai briganti dell’aiducco Iancu Jianu, che terrorizzano l’aristocrazia e la gendarmeria valacca, per diventare quindi il capitano di una improbabile ciurmaglia di pirati, crudeli predatori dell’Egeo.

Sorretto tanto dalla propria caparbietà quanto dalla mano invisibile della profezia di Moshe, che già lo vede padrone dell’Arca dell’Alleanza, miraggio di potere assoluto, Theodoros percorre tra efferatezze e turpitudini di varia natura, il cammino tracciato dalle lettere della parola ebraica savaoth, disperse tra le mille isole greche, che il Creatore ha impresso sull’arcipelago come un artista appone la firma sul proprio capolavoro, inseguendo un destino di amore, gloria e salvezza. Per imparare, morale della favola, che non è possibile averle tutte e tre. E forse è possibile non averne alcuna.

Gli amori letterari e i feticci culturali di Cartarescu sono legione, e l’autore li porta in bella vista sul polsino oppure ben nascosti nella manica. Strizzando l’occhio all’amato García Márquez, dà inizio a Theodoros nel momento in cui «la sua vita finisce e la sua storia può avere inizio», ovvero dalle ultime ore di vita del feroce e orgoglioso imperatore Tewodros II, sconfitto da ultimo dagli inglesi a Magdala, ma prima ancora dalle proprie debolezze e dalle proprie passioni. Da qui, il libro ripercorre in modo non lineare le tappe del destino «di oro e sangue» di questo antieroe larger than life dalla duplice natura di ragno e farfalla (due simboli centrali dell’immaginario dello scrittore romeno) poeta e pirata, mistico e guerriero, angelo caduto che diventa diavolo – «a volte sei una bestia con sembianze umane, Theodoros, e altre volte un giglio con una fragranza meravigliosa, e, nonostante tu abbia calpestato tutti i comandamenti di Mosè a dismisura, ancora c’è infantilità e meraviglia nei tuoi occhi, e il nucleo del tuo cuore è ancora tenero nella sua dura scorza di legno».

Come I libri di Jakub di Olga Tokarczuk – autrice che ha numerose affinità con Cartarescu – anche Theodoros è un romanzo-enciclopedia di stampo visionario-illuminista, dove alla reinventata storia di Makeda e Salomone, che intreccia gli accenti solenni del mito e i toni incantati della fiaba, si aggiungono un pizzico di erotismo, una buona dose di tenerezza e di comprensione per le debolezze dell’essere umano, e un po’ di gioco. Vi si racconta, fra l’altro, del contrabbando di libri di poesia, proibita nell’arcipelago poiché ritenuta droga più potente dell’oppio, con i quali il feroce ma sentimentale pirata Theodoros allevia le pene del cuore; e c’è una lista delle piratesse che accompagnano le sue scorrerie per l’Egeo, nei cui nomi c’è una strizzata d’occhio alla cultura pop, da Star Wars alle telenovelas, ma anche alla letteratura romena per ragazzi e alla scienza.

Come già nel Levante (Voland, 2019), opera forse più di ogni altra rappresentativa del suo epos intellettuale, Cartarescu si mostra maestro della vertigine accumulatoria: di personaggi, oggetti e percezioni, del turbinare lussureggiante di colori, odori e sensazioni, sotto il segno di un Oriente immaginario e fantastico, in un gioco ora malinconicamente nostalgico ora parodicamente carnascialesco, che confida nella smaliziata maturità dei propri lettori, cui chiede di sintonizzarsi con l’innocenza visionaria e fanciullesca del «meraviglioso puro» di cui parla Todorov.

Più che mai in equilibrio tra neoromanticismo e postmodernismo, storia e mito, cronaca e fiaba, Cartarescu inventa un Don Chisciotte «orientale» e canagliesco, nutrito non di romanzi cavallereschi ma dei miti dei libri biblici, canonici e apocrifi, e dei «libri popolari» del lungo Medioevo valacco, tessuti insieme da una scrittura malleabile, flessibile, ora sfarzosa ora sottile, ottimamente riportata in italiano dall’eccellente traduttore Bruno Mazzoni, impegnato in un tour de force non da poco.

Dalle pagine mistiche e irridenti, ironiche e malinconiche di Theodoros, dove si danno convegno briganti e corsari, monaci e generali, principesse con nomi di pietre preziose e piratesse con nomi di gas nobili, la regina Vittoria e l’imperatore degli Stati Uniti d’America Joshua Abraham Norton I, si alza incontenibile e contagioso il piacere del raccontare e dell’inventare: storie dolci o crudeli, soavi o ridicole, ma sempre armi contro il nulla, perché tutto a questo mondo è vano – Theodoros lo impara a proprie spese – fuorché l’incanto miracoloso delle storie.

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