Cristina Tofan è un’aspirante suora. Deve sottoporsi a un periodo di prova che potrebbe durare fino a tre anni. Quando la videocamera la intercetta, sta piangendo. Nella stanza entra sorella Mina che le consegna una borsa e un cellulare. Si direbbe siano i preparativi per una precipitosa fuga dal monastero. L’isolamento di due mesi sta per interrompersi bruscamente. Fuori, una macchina è in attesa di riconsegnare la novizia al mondo. La destinazione, ancora per poco, è ignota agli spettatori di Miracle. Storia di destini incrociati, terzo lungometraggio del quarantaseienne regista rumeno Bogdan George Apetri, lo scorso anno in concorso alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti.
Il tassista accoglie Cristina con scherno e sguardo scettico, forse non vede di buon occhio la ventenne in abito nero. Si mette a parlare meccanicamente delle variazioni del clima, della neve d’estate e del sole d’inverno, pensando a un passato aureo, a una fantomatica epoca dove regnava il benessere. Cristina lo ascolta distrattamente. Ha altro per la testa. Ha composto un numero telefonico ma nessuno le risponde. La vettura procede verso l’ospedale. Quel viaggio è un imprevisto, una deviazione che muta il corso dell’esistenza di chi voleva semplicemente diventare una suora. E se la ragazza chiede al guidatore di fermarsi per indossare vestiti normali, è solo allo scopo di non rivelare la propria identità, di mimetizzarsi, certamente non per esplorare, per sconfinare, per evadere. Il suo celarsi, però, è parzialmente compromesso dall’entrata in scena di un inatteso secondo passeggero, un dottore. Anche lui è diretto all’ospedale. E questa identica meta complica le cose. Il medico è curioso, di contro Cristina oppone resistenza, non vuole assolutamente condividere le proprie esperienze. Quello che sta per fare appartiene solo a lei.

LA PAURA, il rimorso, il prendersi del tempo, la ragione, l’istinto, si possono formulare varie ipotesi sul perché la giovane donna, appena entrata in una stanza di ginecologia, decida repentinamente di andarsene, di variare il piano che l’ha portata fin là. Quello che, invece, appare in modo sufficientemente chiaro, è quel senso di impotenza che avvolge Cristina una volta che è allo scoperto. È in balia di una serie di eventi incontrollabili. È sola e in un mondo indifferente e, al tempo stesso, estremamente violento, accade che qualcuno la fermi mettendo in atto tutto l’orrore di cui è capace l’uomo.
Cambio di prospettiva. Esiste un caso di cronaca nera che riguarda un’aspirante suora. Ora il ruolo di protagonista spetta all’ispettore capo Marius Preda, intravisto in Neidentificat, il film precedente di Apetri che si svolgeva nella stessa centrale di polizia. Marius è un uomo laico, pensa alla logica, alla causa e all’effetto, non crede a disegni divini e non interpreta i fatti come dei presunti messaggi sulla fine del mondo. Sono gli uomini a essere autori delle proprie rovine. Con ostinazione cerca il colpevole con tutti i mezzi terreni che ha a disposizione, compresi quelli illeciti. E qui non vi è possibilità di andare oltre, poiché il film, composto da sole quarantadue sequenze, procede per incastri e continui rimandi. Non che vi sia il pericolo di svelare un colpo di scena. Miracle è una storia di genere e soprattutto è lo sguardo su un mondo in declino, che si identifichi o meno il colpevole di un delitto. «Siamo tutti fatti di ossa, intestini e grasso. Mai nessuno farà il miracolo di farci uscire da questa situazione», dice il dottore a Cristina e al tassista quando ancora ogni cosa doveva accadere. E se poi vi fossero dei miracoli, li meriteremmo?