Internazionale

Mio figlio sarà il Messi cinese? No.

La lunga marcia del movimento calcistico La storia di una scuola calcio italiana a Pechino tra la diffidenza delle famiglie, la voglia di competizione e la necessità di creare una «cultura del calcio». Il processo di mutazione del calcio professionistico ha finalmente preso il percorso giusto

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 31 marzo 2017

Mio figlio diventerà Messi di Cina? No. Quando ho scelto di lasciare l’Italia per trasferirmi a Pechino mi ero appena laureato. Giunto in Cina ho provato a immaginare come sarebbe potuto essere il mio futuro da expat in una terra lontana e sconosciuta, diversa per storia, cultura e tradizioni.

Ho pensato a tutto, ma mai mi sarei immaginato di ritrovarmi da lì a poco immerso nel mondo del caclio cinese. E dire che alcuni eventi furono delle vere e proprie avvisaglie.

«SONO UN FAN DI ZEMAN» Firmai il mio primo contratto di affitto di un appartamento a Pechino Nel 2004. Il proprietario, il signor Wu, un distinto uomo d’affari sulla cinquantina, si era mostrato rigido e serioso. Volle subito sapere da dove venissi e cosa volessi fare in Cina.

Il registro formale precipitò quando volle sapere la mia città di provenienza. «Lecce» gli dissi, cosciente del fatto che molti cinesi ignorano perfino la posizione geografica dell’Italia. «Lecce» mi rispose con un sorriso inatteso, «ma certo! seguo sempre la vostra squadra, sono un fan di Zeman e del suo calcio d’attacco».

Inutile dire che firmammo il contratto parlando di 4-3-3; la sera, seduto sul divano della mia nuova casa, ripensavo a quell’uomo e alla sua passione per il calcio italiano. Credevo fosse una casualità. Col tempo iniziai a capire che molti cinesi vantavano una strana cultura calcistica del tutto inattesa e da troppi sottovalutata.

Come il 50% dei tassisti che, non appena appurata la mia nazionalità, iniziavano a dibattere, come in una radio romana prima del derby, di calcio italiano, di calciatori del presente e del passato. I più anziani sapevano ripetere i nomi della nazionale italiana campione del mondo del 1982.

Una fame di calcio che da allora a oggi non è stata saziata; i cinesi sono interessati al calcio, ma soprattutto a quello straniero. Il calcio in Cina non è mai stato uno sport popolare. Non si vedevano mai piazze o strade popolate da ragazzini intenti a rincorrere un pallone. Ping pong e badminton la facevano da padrone. Il calcio professionistico era gestito da uomini corrotti devoti più alle scommesse che al successo della propria squadra.

UN SISTEMA SBAGLIATO Le squadre di calcio, inizialmente tutte statali, erano in mano a improbabili presidenti e allenatori improvvisati, ex calciatori senza i «fondamentali» del calcio. I più scaltri si affidavano ad allenatori stranieri a buon mercato, quasi tutti serbi, come il mitico Bora Milutinovic, diventato un idolo perché riuscì nella storica impresa di qualificare la Cina per i mondiali di Corea e Giappone del 2002.

Ma spesso anche gli «stranieri» finivano per adeguarsi a un sistema corrotto e non riuscivano a portare nessun progresso nei metodi di insegnamento di questo sport.  Quella stessa gioia del mondiale 2002 durò poco e non servì ad alleviare la grande frustrazione che i cinesi provano e continuano a provare per il calcio di casa.

I cinesi continuano ad ammirare i campioni del calcio europeo e si domandano perché una Cina cosi forte a livello sportivo internazionale, tanto da primeggiare alle olimpiadi di casa del 2008 per numero di medaglie, non riesca mai ad avere successo nel calcio.

Una frustrazione che dal popolo raggiunse i vertici del governo cinese, fino ai ben noti diktat del presidente Xi, fanatico del calcio e vero timoniere di questa rivoluzione.

MODELLO GUANGZHOU La forza economica che vantano i cinesi sta rendendo l’impresa meno complicata del previsto. Il modello Guangzhou Evergrande marchiato Italia con Marcello Lippi è servito da esempio per tutti gli altri milionari cinesi che, in cambio del favore politico, versano miliardi di Rmb nelle casse dei loro club per acquistare allenatori e calciatori stranieri facendo crescere il brand calcistico e il business di sponsor e servizi che orbitano attorno al calcio.

Ma la domanda fatale è sempre la seguente: perché i risultati stentano ad arrivare ? Perché la nazionale cinese fatica ancora perfino a qualificarsi ai mondiali ? Perché i club esprimono tutti un calcio decisamente semplice, privo di nuovi spunti tecnici e tattici?

IL VALORE SOCIALE Da italiano cresciuto con il pallone per strada ho avuto fin da subito la percezione che i nostri amici cinesi abbiano sempre sottovalutato il valore sociale e culturale che il calcio ricopre nelle nazioni dove effettivamente spopola ed è considerato sport nazionale.

Tutti i Paesi del mediterraneo o del Sudamerica hanno sfornato campioni a quintali: fenomeni che crescono sull’asfalto, sulle spiagge, nei campetti improvvisati delle parrocchie. Il Cina il calcio non è stato popolare, non è mai appartenuto al popolo, né è mai stato fenomeno di aggregazione, passione, divertimento, né una contemporanea industria culturale.

Chi si avvicinava a questo sport lo faceva per caso a età ormai improbabili, spesso all’interno delle stesse scuole dove i ragazzini cinesi studiavano dalla mattina alla sera sotto il severo controllo dei professori. Ambienti altamente competitivi per questi ragazzini che sin da piccoli sono allenati a gareggiare, a competere.

Essere il primo è essenziale per accedere a una migliore scuola superiore e a una migliore università, per poi agganciare un buon lavoro e uno stipendio conseguente.

Uno stress educativo/lavorativo tipico di questa società corrotta dal desiderio di crescita e progresso che non risparmia nemmeno i ragazzi, proprio negli anni più importanti della loro crescita, quando giocare, socializzare, divertirsi li renderebbe ragazzini molto più allegri e sicuri di sé.

Allora ti ritrovi ad avere un ragazzo di 10 anni che trascorre tutta la sua giornata a scuola, dal mattino alla sera, imparando a memoria qualsiasi cosa e temendo solo l’insuccesso nei confronti degli altri. Questa ansia da prestazione contagia tutto.

ITALIA VS CINA Ogni anno noi italiani expat mettevamo su con estrema facilità una squadra di 15/16 elementi e partecipavamo ai tornei di calcio più noti di Pechino. Eravamo tutti avanti con l’età, lavoratori ex calciatori amatoriali, ma ogni qual volta si sfidava una squadra di cinesi capivamo subito come riuscire a portare a casa i tre punti: passaggi precisi e organizzazione di gioco.

Loro erano magri, piccoli e velocissimi oltre che infinitamente più giovani di noi. Ma giocavano tutti per la loro personale gloria. Non pensavano da squadra ma da singoli individui intenti a dimostrare a tutti, compagni di squadra inclusi, di essere i più forti.

Era la loro ansia da prestazione. Quella che li fa eccellere negli sport individuali ma quasi sempre arrancare negli sport di gruppo. Dove serve lottare l’uno per gli altri. Dove serve correre e soffrire insieme. Dove egoismo e furbizia risultano essere un danno letale per il gioco di squadra.

Questo è quello che ragazzi come noi hanno imparato spontaneamente sui campi di calcio fin da bambini, ma che qui in Cina nessuno si preoccupava di insegnare.

LA SCUOLA CALCIO Dopo un paio di anni in questa Cina innamorata del calcio ma incapace di giocarci, ho avuto la fortuna di incontrare degli investitori cinesi che decisero di credere in un progetto realizzato insieme ad altri amici italiani quasi per gioco: una scuola calcio italiana gestita da allenatori italiani multilingue e rispettosa dei principi fondamentali che il calcio ci ha sempre insegnato.

Il calcio è un gioco dove l’importante è partecipare e non vincere, collaborare e non competere, essere squadra e non singoli individui bisognosi di emergere. Fu una esperienza pazzesca. Non c’era nulla di professionistico ma tanto di romantico: non si regalavano sogni come in tante altre scuole e non si illudevano i genitori promettendo di trasformare il figlio nel nuovo Messi di Cina.

Eravamo un gruppo di amici allenatori e un altro gruppo di ragazzini cinesi che semplicemente non credevano ai loro occhi. Andavamo a prenderli da scuola con il nostro bus privato. Un gesto simbolico per ragazzi ai quali volevamo comunicare sin da subito un cambio di linguaggio, di atteggiamento, di metodo.

Non si trattava più di scuola, di insegnanti severi, di ricerca di successo. Si partiva come in gita per una nuova destinazione. Un centro sportivo (l’Ole Football ) ricavato all’interno di una vecchia fabbrica nella periferia est di Pechino, dove i ragazzi potevano dare sfogo a tutta la loro innata voglia di correre, gridare, calciare il pallone senza temere di essere rimproverati.

Partimmo con 10 ragazzi e tanta diffidenza. Dopo il primo anno si sparse la voce. I ragazzi si moltiplicarono. I genitori venivano a controllare con i loro occhi cosa potesse attrarre cosi tanto i propri figli, cosa li rendesse felici al punto da non rinunciare mai a una singola lezione.

Spesso i padri e le madri mi chiedevano cosa pensassi delle doti tecniche del proprio figlio: poteva diventare un campione? Rispondevo di no, con un sorriso enorme. Ma facevo notare a tutti loro come finalmente il proprio figlio fosse felice di giocare insieme ad altri suoi coetanei, di correre e ridere senza nessuna tensione o aspettativa.

Nessuno di loro mi credeva. Pochi mi capivano. Ma nessun ragazzo abbandonò mai la scuola calcio. Iniziammo a organizzare dei mini tornei nei weekend. Poi tornei sempre più grandi coinvolgendo altre scuole e altri quartieri della città. Il lavoro da fare era tanto. Ma le soddisfazioni rendevano tutto più appagante.

La cultura delle scuole calcio, da quel lontano 2007, è cambiata , in meglio, in quasi tutte le regioni della Cina. Vere e proprie accademie professionistiche spuntano come funghi; sono finanziate dalle grandi società cinesi e il numero di allenatori e consulenti stranieri che gestiscono le nuove scuole cresce di anno in anno in maniera esponenziale.

Il grande processo di mutazione del calcio professionistico cinese, con estremo ritardo rispetto ai vicini di casa Corea e Giappone, ha finalmente preso il percorso più giusto e corretto: una lenta evoluzione dei metodi di insegnamento del calcio, sin dai primi anni,  moderna e incentrata sulle scuole, innanzitutto, e sulle accademie di calcio.

Un processo che impiegherà i suoi 10/15 anni prima di lasciare quei segni voluti e auspicati. Quanto alla «nostra» scuola calcio di Pechino, resterà per sempre nel mio cuore. La scuola esiste ancora, gestita da altri amici che come me condividevano quella stessa passione. E continua a non sfornare campioni di calcio ma semplici piccoli uomini.

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