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Ministro Orlando, ora tocca a lei

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Fini-Giovanardi Dopo la Consulta, una legge ad hoc per dare attuazione al dettato costituzionale

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 febbraio 2014

Partirei da un dato. Finire in carcere per scontare una pena comminata da una legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima sin dalla nascita, è una inaccettabile iniquità, che urta il più elementare senso di giustizia. Eppure questo è il rischio che corrono coloro che, per fatti di cannabis, sono stati condannati con sentenza passata in giudicato sulla base della legge Fini-Giovanardi, recentemente cancellata dalla Consulta. Il rischio dipende dal fatto che la Consulta non ha cancellato i reati, ma solo dichiarato illegittimo l’aumento delle pene previsto dalla Fini-Giovanardi per fatti di cannabis, ripristinando le pene più miti previste dalla legge precedente. In casi come questo si discute se l’aumento di pena sancito dalla legge dichiarata incostituzionale si possa cancellare, rimettendo in discussione le condanne passate in giudicato.

Una controversia del genere è in atto davanti la corte di Cassazione a proposito della aggravante della “clandestinità” introdotta nel codice penale nel 2008 dal governo legaforzista, per colpire più duramente gli immigrati “irregolari” che avessero commesso un qualsiasi reato (anche il classico furto di mela). Questa insensata efferatezza è stata cancellata dalla Consulta nel 2010 ed ora in Cassazione si discute se gli immigrati nel frattempo condannati con sentenza passata in giudicato devono o no scontare anche il pezzo di pena relativo all’aggravante dichiarata incostituzionale. A breve, sulla questione si dovranno pronunciare le sezioni unite della Cassazione per dire quale delle due soluzioni sia quella giusta.

Come si vede, la questione ha strette analogie con quella che i giudici dovranno affrontare con riferimento alla decisione della Consulta sulla Fini-Giovanardi, perché anche in questo caso si tratta di stabilire se le condanne passate in giudicato non si possono toccare o se invece devono essere modificate per adeguarle alle pene minori previste dalla legge precedente per la cannabis. Ma, come si sa, l’esercizio della giurisdizione è inevitabilmente caratterizzato da incertezze e disparità di trattamento, che solo un intervento legislativo, necessario e urgente per attuare il dettato costituzionale uscito dalla decisione della Consulta, potrebbe eliminare in radice. E sarebbe altresì utile non solo per attenuare l’intollerabile sovraffollamento carcerario, ma anche per snellire il compito degli uffici giudiziari che saranno sovraccaricati dai ricorsi degli interessati. Partendo dalla premessa che la Fini-Giovanardi ha aumentato di due terzi le pene per la cannabis previste dalla legge precedente, si potrebbe stabilire che il giudice dell’esecuzione, con un semplice decreto, diminuisca di due terzi le pene della condanna da eseguire. Una simile soluzione sarebbe certamente in contrasto con l’”intangibilità” delle sentenze definitive, come quelle di cui parliamo. Ma il feticcio del “giudicato” – che in realtà è solo un espediente pratico, necessario ad evitare che i processi si protraggano all’infinito – ha fatto il suo tempo. Nel nostro sistema penale sono già previsti altri casi in cui le esigenze della pratica devono cedere il passo ad eccezionali esigenze di giustizia. E non si può negare che ricondurre al dettato costituzionale le pene da eseguire, costituisca una ragione di eccezionale rilevanza, che merita una deroga alla intangibilità del giudicato.

Una soluzione analoga sarebbe utile ed equa anche per i processi pendenti in Cassazione. A seguito della decisione della Consulta, i giudici di piazza Cavour, nei processi per cannabis (pare che siano migliaia), avranno l’obbligo di annullare le sentenze di condanna emesse in base alla Fini-Giovanardi, rinviando il processo, per la rideterminazione della pena, ai giudici territoriali; e costoro dovranno emettere una nuova sentenza, che a sua volta sarà nuovamente impugnata in Cassazione. Un andirivieni di carte e fascicoli processuali, che si potrebbe evitare con una norma che dicesse che la Cassazione ridetermina direttamente la pena riducendo di due terzi quella inflitta dal giudice di merito. La storia finirebbe lì, senza altri strascichi, con una sentenza standard.

Alla Giustizia è andato un ministro di etichetta garantista. Sarebbe un bel biglietto da visita se, traducendo l’etichetta in opere, avvertisse la necessità e l’urgenza di dare attuazione al dettato costituzionale in una materia di grande rilevanza sociale.

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